“L’italia non aveva certo bisogno nei prossimi mesi di una campagna elettorale su temi come questi […] Dividere il Paese tra chi magari strumentalmente demonizza uno strumento e chi magari, pur riconoscendone i limiti e avendo una chiara intenzione di riformarlo, sarebbe stato costretto a difenderlo, sarebbe stato credo un errore e un danno per l’Italia”. Queste le prime parole del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni che in conferenza stampa a Palazzo Chigi non ha tentato in alcun modo di mascherare le reali condizioni di necessità ed urgenza individuate dal Governo per giustificare il decreto legge che abroga i voucher. Era necessario ed urgente evitare di fare arrivare gli elettori alle urne del referendum promosso dalla CGIL, scongiurando non tanto i suoi effetti normativi e politici, quanto il dibattito pubblico che avrebbe accompagnato gli italiani sino al giorno del voto.
Gentiloni lo ha ribadito chiaro e tondo “la scelta presa dal Governo libera il tavolo da una discussione ideologica che non ci avrebbe aiutato”. Ed è vero: all’epoca della cosiddetta quarta rivoluzione industriale, anno 2017 inoltrato, le questioni del lavoro restano pervase da una sottile e costante tensione ideologica che attraversa il tessuto dei suoi discorsi pubblici. Esattamente come successo al famigerato articolo 18, nei discorsi dei sostenitori del referendum e in quelli dei suoi detrattori, la classificazione dei voucher è oscillata continuamente tra la sfera del simbolo politico, quello di un’apoteosi del precariato, e la sfera del fenomeno reale da regolare necessariamente, quello del lavoro occasionale.
Così la CGIL, che ha esplicitato più volte l’obiettivo innanzitutto culturale e comunicativo del referendum (“I voucher nati per lavoretti sono la precarietà nella precarietà. Sono simbolici, vanno aboliti” sintetizzava la confederazione su Twitter), per poi precisare però che i buoni lavoro non sono una questione minoritaria e che il lavoro occasionale va regolato, come proposto dalla Carta dei Diritti depositata in parlamento.
Così anche gli ambienti vicini al governo, che hanno descritto la questione dei voucher come un’arma di “distrazione di massa”, ma che hanno subito avanzato le prime ipotesi per regolare con altri strumenti il lavoro occasionale.
Su una cosa quindi governo e CGIL sembrano essere d’accordo: il lavoro occasionale esiste e va in qualche modo normato. Ergo, sui voucher si è assistito a una prova di forza che li ha in fine sacrificati sull’altare della mera simbologia, disinnescando (due piccioni con una fava) la contesa del consenso che si sarebbe verificato poi alle urne.
Basta che non se ne parli più, dice quindi l’esecutivo, ed è forse addirittura da apprezzare la trasparenza con la quale Gentiloni, capace di toni e di modi molto più distensivi di quelli del suo predecessore, ha dichiarato di aver perseguito questa strada.
Eppure viene difficile fare a meno di porsi una domanda fondamentale: può mai il leader di governo di una moderna democrazia dire che un dibattito pubblico, per quanto ammalorato, va evitato in toto? Non ci sarebbe forse da stupirsi, giacché la logica pare essere la stessa che ha gettato i voucher con la loro acqua sporca. Si tratta però (e non è un’iperbole) di una domanda che punta al cuore della democrazia, direttamente connessa con il fondamento istituzionale in particolare della nostra democrazia, perché non riguarda solo il formarsi della legittimazione del potere nel libero confronto, ma riguarda in particolare il lavoro. In altre parole, può il governo di “una repubblica democratica fondata sul lavoro” dire che è bene per il Paese evitare un confronto democratico proprio sul lavoro? In democrazia, ovvero quella forma di governo dove il potere è il consenso che si ottiene col discorso, può la parola essere usata per difendere norme adottate per evitare il libero esercizio della parola stessa e neutralizzare i risultati di questo esercizio? Tutto ciò indipendentemente dal fatto che il confronto esistente sia ideologizzato o meno, e sempre ammesso che un governo abbia tra le proprie prerogative quella di indicare cosa è ideologico e cosa no (compito comunque alquanto arduo).
Si tratta di un interrogativo che prescinde invece dalla questione tecnica, ossia se si possa chiamare “necessità ed urgenza” la volontà di evitare il formarsi di un determinato clima socio-politico. Prescinde inoltre anche dalla questione meramente politica, ossia se sia oggi utile continuare a rimandare il voto aspettando che l’elettorato si disaffezioni alla proposta “populista”, che questa “passi di moda”.
Certo, sinora tutto di Gentiloni (il metodo, il profilo istituzionale, i toni dimessi), anche quest’ultima mossa, risulta coerente con la volontà di evitare gli scontri e recuperare un clima di dibattito più sereno, e marca quindi una sensibile discontinuità, almeno metodologica, rispetto alla verve polemica preferita dal suo predecessore.
Tuttavia l’argomentazione di Gentiloni rischia di avere un effetto doppiamente controproducente. Da un lato perché svilisce la comunicazione politica e il ruolo del dibattito, come rinunciasse alla possibilità di intessere un confronto collettivo ragionevole, dove il governo fosse in grado di superare con l’argomentazione la forza persuasiva delle supposte ideologie. Dall’altro perché rischia di creare un precedente che si potrà riproporre di fronte a ogni tentativo di riforma del lavoro occasionale, e del lavoro in generale, che non coincida con le proposte contenute nella carta dei diritti della CGIL.
In conclusione il caso in questione pare ricordare una volta di più che in democrazia, separare strumentalmente forma e sostanza, fenomeni e loro simboli, è in fondo illusorio. Tra le opposte vie dello scontro aperto con i sostenitori del referendum (denunciando cioè la vacuità dell’ideologia) e il superamento della consultazione con la spugna del decreto legge (intervenendo cioè sulla sostanza), una terza via sarebbe stata possibile e sarebbe stata quella che avrebbe esaltato l’eventuale ragionevolezza del Governo. Ossia: accettare il referendum e intessere un serio ed onesto confronto pubblico sulle proposte di modifica della disciplina dei voucher e degli appalti.
Invece, di fronte a una campagna che, secondo l’esecutivo, si stava incanalando in un dibattito manicheista, avulso dal merito delle questioni, il Governo ha scelto proprio di non ribadire alcun merito della questione, promettendo però un nuovo confronto (al sicuro dal voto) per una nuova regolazione del lavoro accessorio.
Punto e a capo quindi. E viene allora da chiedersi a che cosa siano serviti almeno 15 anni di polemiche roventi sulle politiche del lavoro se non si è ancora riusciti ad avviare un sano confronto sulla moderna fluidità del lavoro, del quale il lavoro “precario”, “occasionale”, “saltuario”, “intermittente”, “a progetto”, sono diverse e distinte espressioni. Vengono alla mente le parole di Ennio Flaiano, quando chiosava che “in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi”. Sperimentando politiche adeguate al lavoro contemporaneo, qualcosa di simile a una dialettica di arabeschi potrebbe anche essere inevitabile, ma sarebbe certo meglio che impedire ai cittadini di lasciare il loro segno.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo