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Alla luce del Rapporto Covip per il 2016 sappiamo che il settore della previdenza privata a capitalizzazione, 25 anni l’avvio di un laborioso riordino “a cantiere sempre aperto”, ha accumulato risorse pari a 151,3 miliardi (+ 7,8% rispetto all’anno precedente) e corrispondenti al 9% del Pil e al 3,6% delle attività finanziarie delle famiglie italiane. Un ammontare significativo in sé per sé, se non fosse che si ridimensiona vistosamente nel contesto internazionale.
Secondo i dati provvisori diffusi dall’OCSE nel maggio 2017 (e ripresi nel Rapporto Covip) a fine 2016 le attività dei fondi pensione dell’area OCSE hanno superato i 25mila miliardi di dollari, il livello più elevato finora raggiunto. In rapporto al PIL complessivo dell’area, esse rappresentano l’85,3 per cento. Considerando tutte le tipologie di strumenti attraverso i quali il risparmio previdenziale viene accumulato (fondi pensione autonomi, riserve nei bilanci delle imprese, contratti di assicurazione a scopo pensionistico), si può valutare che le risorse complessivamente destinate a prestazioni pensionistiche nell’area abbiano superato i 37mila miliardi di dollari.
Dopo la crisi finanziaria del 2008, che aveva causato una forte contrazione del mercato, il settore dei fondi pensione ha vissuto un periodo di forte crescita (da noi ci sono stati invece due milioni di aderenti, soprattutto lavoratori autonomi, che hanno cessato di versare la contribuzione dovuta). Considerando il periodo dalla fine del 2008 alla fine del 2016, l’incremento delle attività detenute dai fondi pensione (OCSE) è stato del 58 per cento (corrispondente a un incremento medio annuo del 5,9 per cento). Le attività dei fondi pensione hanno da tempo dimensioni cospicue in termini assoluti in diversi Paesi di rilievo (Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Giappone, Paesi Bassi), che pesano per circa l’85 per cento degli attivi dei fondi pensione dell’area OCSE. In alcuni Paesi (Paesi Bassi, Islanda, Svizzera, Australia), le attività detenute dai fondi pensione hanno superato il valore del rispettivo prodotto interno lordo nazionale nel 2016. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi dell’area OCSE, tali attività risultano ancora di dimensione limitata in confronto al rispettivo valore del PIL. Il ruolo che la previdenza complementare svolge nel complesso del sistema pensionistico dei diversi Paesi è, infatti, molto diversificato e legato alle caratteristiche del sistema di sicurezza sociale e alla dimensione delle prestazioni pensionistiche offerte dalla componente pubblica.
Dove quest’ultima ha erogato finora pensioni abbastanza generose, il sistema privato a capitalizzazione è meno sviluppato; viceversa, dove le pensioni pubbliche sono di importi minori, il sistema privato assume dimensioni di rilievo. Un’altra componente che incide sulle possibili adesioni (in Italia gli iscritti attivi sono poco più del 25% degli occupati) dipende dall’incidenza sul reddito del ‘’costo’’ della previdenza obbligatoria. In particolare, lo spazio di crescita dei sistemi di previdenza complementare non può essere indipendente dal livello di contribuzione previsto per il finanziamento delle pensioni pubbliche. I contributi previdenziali obbligatori, a carico sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori, destinati a finanziare le pensioni pubbliche vigenti nei paesi dell’OCSE, si concentrano nella fascia del 20-25 per cento delle retribuzioni. Nei pochi paesi (inclusa l’Italia) nei quali tali percentuali vengono superate, la previdenza complementare non risulta molto sviluppata. Da noi, infatti, l’aliquota contributiva sul lavoro dipendente – pari al 33% della retribuzione è una delle più elevate sul piano internazionale – non lascia margini adeguati per allocare risorse aggiuntive a forme di previdenza obbligatoria, tranne nei casi in cui si renda disponibile l’utilizzo del tfr e che la contrattazione collettiva stabilisca un contributo anche a carico del datore. Tali condizioni circoscrivono il profilo del possibile utente della previdenza privata e, nel contempo, anche quello di chi ne è precluso, i giovani innanzi tutto fino a quando non realizzano un rapporto di lavoro stabile.
Ecco perché era interessante – ancorché sia stata seppellita nel più recondito “dimenticatoio” – la proposta indicata, come ipotesi di studio nella riforma Fornero, di consentire l’opting out volontario di alcuni punti dell’aliquota obbligatoria per finanziare una forma di previdenza complementare, puntando sul suo presumibile maggior rendimento a compensazione del minore importo, al momento della sua erogazione, della pensione pubblica secondo le regole del sistema contributivo.
Un’altra caratteristica della previdenza complementare italiana nei confronti di quella operante nei Paesi OCSE riguarda la politica degli investimenti. Mentre da noi è assolutamente prevalente (61%) l’allocazione delle risorse in titoli di debito ed in particolare in titoli di Stato (non solo “domestici”, ma anche in quelli di altri Paesi più solidi), gli investimenti in azioni e obbligazioni continuano a rappresentare i principali strumenti di investimento per i fondi pensione, con percentuali tuttavia variabili tra i diversi paesi. In 18 dei 27 paesi partecipanti alla rilevazione, i fondi pensione detengono titoli azionari e obbligazionari in misura superiore al 75 per cento del loro portafoglio complessivo. In alcuni Paesi, la percentuale di attività investite in azioni supera o si avvicina al 50 per cento. Si tratta sia di paesi dove, in termini di attività in essere, i fondi pensione a prestazione definita sono ancora prevalenti (Stati Uniti, Regno Unito), sia di paesi caratterizzati invece da piani a contribuzione definita (Australia, Cile).
Nei paesi anglosassoni, ragioni culturali e di consuetudine all’investimento nei titoli azionari da parte sia degli investitori istituzionali sia delle famiglie giustificano tali scelte di allocazione. Per alcuni di tali Paesi, i dati più recenti, tuttavia, segnalano una riduzione della quota investita in azioni. Tuttavia, i fondi pensione continuano a investire una parte considerevole del loro portafoglio in titoli obbligazionari, soprattutto in alcuni paesi dell’Europa dell’est (Repubblica Ceca, Ungheria, Serbia e Repubblica Slovacca) e in quelli latino-americani (Cile, Costa Rica, Repubblica Domenicana e Messico), con quote pari o superiori al 50 per cento dei portafogli complessivi detenuti. Negli ultimi anni, la riduzione dei tassi di interesse ha determinato cospicue plusvalenze e ha quindi sostenuto i rendimenti.
La ripartizione degli investimenti dei fondi pensione tra componente domestica e componente estera risulta molto diversificata. Essa è determinata in primo luogo dalla dimensione del Paese e dall’importanza dei mercati finanziari domestici, con i paesi sviluppati di maggiori dimensioni che offrono già a proprio interno ampie e diversificate opportunità di investimento. Nell’aerea dell’euro, dove il rischio valutario dell’investimento estero è annullato, gli investimenti transfrontalieri hanno un peso, ceteris paribus, maggiore.
C’è poi un altro aspetto da considerare. Sebbene per lungo tempo le forme a prestazione definita abbiano rappresentato (e continuino a rappresentare) la quota più rilevante del settore in termini di patrimonio, da diversi anni si assiste a una crescita significativa delle forme a contribuzione definita. In quasi tutti i Paesi nei quali la previdenza complementare è stata introdotta di recente, essa è basata sul regime della contribuzione definita. In particolare, nei 35 paesi aderenti all’OCSE, forme a contribuzione definita (compresi anche i piani pensionistici individuali) sono presenti in 26 paesi. Tali forme rappresentano spesso l’unica tipologia offerta nei paesi dell’Europa centrale e orientale e in America latina. Solo tre paesi (Finlandia, Germania e Svizzera) prevedono forme pensionistiche esclusivamente a prestazione definita. I piani occupazionali a prestazione definita continuano peraltro a detenere la quota più elevata di patrimonio nella maggior parte dei Paesi (in particolare perché si tratta di solito di quelli costituiti da più tempo).
È in atto, tuttavia, una tendenziale riduzione del ruolo svolto dai fondi pensione a prestazione definita che deriva in primo luogo dalla difficoltà per le imprese sponsor di continuare a farsi carico dei rilevanti rischi di mercato e di tipo demografico connaturati a tali schemi. Contribuisce a tale tendenza la maggiore mobilità del mercato del lavoro, in prospettiva, anche a livello transnazionale. La riforma dei piani previdenziali a prestazione definita tipicamente prevede la revisione delle modalità di condivisione dei rischi tra fondi, aziende sponsor e aderenti, modificando, ad esempio, i criteri di indicizzazione delle prestazioni o di calcolo dei contributi da versare, in base alla presenza o meno di uno squilibrio tra le attività del fondo e le riserve tecniche. Tuttavia, le soluzioni adottate per farvi fronte sono spesso più drastiche e prevedono il taglio delle prestazioni, in molti casi anche di quelle già in erogazione, e/o la chiusura stessa dei fondi, a tutti gli iscritti o solo alle nuove adesioni, con la sostituzione delle forme a prestazione definita con quelle a contribuzione definita.
In un contesto in cui i rischi connessi alle fasi di accumulo e di erogazione sono trasferiti in larga misura sugli aderenti, è cruciale l’adozione di misure di policy che indirizzino gli iscritti attuali e potenziali alle forme complementari nella direzione appropriata, al fine di poter poi disporre nell’età anziana di prestazioni pensionistiche adeguate. E’ noto il problema connesso alle forme a prestazione definita. Il fondo si impegna a garantire un risultato ragguagliato, sovente, alla differenza tra la retribuzione percepita durante la vita attiva e il tasso di sostituzione assicurato dal sistema pubblico. Un’operazione siffatta si è rivelata parecchio rischiosa per l’onerosità sopraggiunta in seguito agli andamenti demografici e al prolungamento dell’attesa di vita. Garantire un risultato economico a distanza di tempo comporta la necessità di adeguare le modalità di finanziamento alle variabili – demografiche, reddituali, ecc. – che di volta in volta si presentano, soprattutto in un perimetro ristretto di aderenti (come può essere un’azienda). Ecco perché è capitato spesso che questa tipologia di fondi pensione, specie nei regimi anglosassoni, abbiano determinato, divenendo insostenibili, effetti negativi anche per le imprese che li avevano istituiti.
La contribuzione definita, invece, è un modello (obbligatorio in Italia per le forme del lavoro dipendente) in cui il fondo si limita a gestire secondo precisi criteri le risorse incamerate su ogni posizione individuale, il cui montante (versamenti effettuati + rendimenti acquisiti + benefici fiscali riconosciuti), determina l’entità della prestazione calcolata secondo regole tecnico-attuariali definite.
Membro del Comitato scientifico ADAPT