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L’Università e l’ipocrisia della cooptazione per concorso. L’intervento di Dario Braga dello scorso 20 luglio ha il merito di andare oltre la sterile polemica sui criteri di reclutamento dei docenti, suggerendo idee e argomenti per un dibattito intellettualmente onesto sul ruolo che vogliamo assegnare al sistema universitario nel processo di modernizzazione del Paese.
I temi toccati da Braga sono numerosi e caratterizzati da diversi gradi di complessità. Dalla ossessione di noi docenti per il “posto”, da conquistare o assegnare ai nostri allievi, al finanziamento della ricerca. Dai criteri di valutazione all’eccesso di burocrazia che sottrae energie a insegnamento e ricerca. A questi potremmo aggiungere, ricordando l’inchiesta del Sole 24 Ore dello scorso 14 giugno, quello del funzionamento degli uffici placement degli Atenei: un tema centrale non tanto in termini di mero “collocamento” degli studenti quanto per il rinnovamento dei programmi e della didattica in chiave di occupabilità e di maggiore raccordo col sistema produttivo.
Tante le soluzioni sin qui offerte dai Governi che via via si sono succeduti e dal Parlamento. Tutte eccetto quella che potrebbe aggredire in radice il problema, in termini di reale autonomia ed effettiva responsabilità, e cioè l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Sono i tempi a rendere ineludibile un coraggioso cambio di paradigma per incentivare, non più solo a parole, il merito e le eccellenze tanto nella didattica che nella ricerca. L’auspicio è che si giunga presto ad affrontare, come tema dei temi per la prossima legislatura, il nodo del valore legale senza le doppiezze e i tanti luoghi comuni che hanno accompagnato una proposta che oggi conta numerosi sostenitori anche tra i diversi schieramenti della politica. E questo perché, all’epoca della Quarta rivoluzione industriale, la competizione internazionale sarà sempre più una sfida tra i diversi sistemi educativi e della ricerca che saremo in grado di affrontare solo abbandonando la vecchia e falsa idea che il valore legale del titolo sia garanzia e presidio dell’ideale egualitario.
Comunque la si pensi sul punto, non si può in ogni caso sottovalutare la denuncia di Braga, sino a oggi mai avanzata nel dibattito pubblico, in merito alla assenza di un mercato del lavoro intellettuale. Che è poi la vera ragione del localismo, della bassa mobilità dei ricercatori, di una didattica superata e del difficile dialogo con il sistema delle imprese. La verità è che solo da noi il termine ricercatore coincide con lo status giuridico di chi lavora dentro le università. Si tratta di una visione lontana dalla realtà, così come documentata dalla storia della innovazione, e che entra in rotta di collisione con le iniziative comunitarie dirette alla costruzione di una area europea della ricerca che, non a caso, restano ancora oggi largamente disattese nel nostro Paese.
Tanto i documenti di policy della Commissione quanto la Carta europea dei ricercatori si pongono l’obiettivo di annullare i confini intersettoriali e le persistenti barriere alla mobilità dei ricercatori a beneficio di una reale integrazione tra pubblico e privato. Una integrazione da tutti auspicata a parole eppure difficilmente attuabile in vigenza di una idea di primazia e monopolio della conoscenza che ancora pervade l’accademia. Anche per questo motivo è strategico dare avvio, nella stagione della open innovation e della disruptive technology, a un vero e proprio mercato del lavoro di ricerca: un mercato incentrato su moderni percorsi di selezione e formazione e su percorsi di carriera coerenti alle caratteristiche e ai cicli professionali del ruolo.
In assenza di un processo bottom-up, che dovrebbe essere guidato dal sistema di relazioni industriali analogamente a quanto si è verificato nel secolo scorso per la figura dei quadri direttivi e intermedi, spetta alla buona politica dare pieno ed effettivo riconoscimento al lavoro di ricerca in tutte le sue forme ed espressioni contribuendo con ciò alla attuazione anche in Italia della Carta europea dei ricercatori. Non si tratta di un semplice riconoscimento formale del valore della ricerca aziendale e dei dottorati industriali, che poi rimangono inesorabilmente fermi al palo, quanto della costruzione di un sistema ordinamentale con precise regole su metodi e pratiche di assunzione e valutazione, profili professionali e di carriera, percorsi di riqualificazione e ricollocazione professionale, termini e condizioni di impiego, certificazione delle competenze.
È illusorio attendersi, almeno nel breve periodo, una riforma complessiva del lavoro di ricerca che proceda in questa direzione. Pare in effetti poco plausibile dare corso a una radicale riscrittura delle attuali regole calibrate sulle sole carriere accademiche. Un primo passo per l’armonizzazione dei percorsi professionali tra pubblico e privato e il riconoscimento della mobilità anche intersettoriale potrebbe semmai procedere nella direzione della messa a punto di un sistema normativo autonomo e di pari dignità per il lavoro di ricerca nel settore privato come del resto prevedono alcuni recenti disegni di legge (uno a firma di Raffaello Vignali e l’altro di Maurizio Sacconi). Un sistema a tutto tondo per la valorizzazione del lavoro di ricerca non accademico che, una volta entrato a regime, possa poi rappresentare quell’indispensabile premessa per un futuro e definitivo annullamento degli attuali confini giuridici tra lavoro di ricerca pubblico e lavoro di ricerca privato in modo da entrare così a pieno titolo nelle dinamiche proprie della Quarta rivoluzione industriale.
Coordinatore scientifico ADAPT
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2017