Politically (in)correct – En Marche, Europe!

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L’importante discorso del presidente Emmanuel Macron – pronunciato nel prestigioso ed evocativo scenario della Sorbona e pubblicato integralmente su Il Foglio – è stato accolto con freddezza in Italia, come se il capo dell’Eliseo fosse una sorta di Luigi Di Maio d’Oltralpe; ovvero un ragazzo arrivato al potere (o anche solo vicino ad esso) in conseguenza di un attimo di distrazione della storia. Nei confronti di Macron, poi, è diffuso tra gli osservatori il medesimo sentimento di ostilità che Pinocchio nutriva per il Grillo parlante, il quale, con insistenza non gradita, era solito indicare al burattino la corretta linea di condotta.

 

Assumendo la causa dell’Europa e della moneta unica come la chiave di volta della sua azione di governo, Macron rischia di smascherare gli alibi che gran parte delle forze politiche (non solo) italiane si sono costruite per mettersi al riparo dalle critiche dell’opinione pubblica, attribuendo ogni responsabilità all’Unione e all’euro. “Queste persone – ha affermato Macron – mentono ai nostri popoli, ma glielo abbiamo lasciato fare: abbiamo fatto passare l’idea che l’Europa fosse solo una burocrazia impotente. Abbiamo ovunque, in Europa, spiegato che quando andava rispettato un obbligo europeo, che quando l’impotenza era alle porte, non eravamo noi i responsabili, ma Bruxelles. Dimenticando, così facendo – ha aggiunto – che Bruxelles non siamo altro che noi, sempre, ad ogni istante”. Ed ancora: “Queste idee hanno un nome: nazionalismo, identitarismo, protezionismo, sovranismo. Queste idee – ha proseguito Macron – hanno acceso bracieri dove l’Europa avrebbe potuto perire; ed eccole di nuovo apparire con degli abiti nuovi proprio in questi ultimi giorni. Si dicono legittime perché sfruttano con cinismo la paura dei popoli. Troppo a lungo abbiamo ignorato la loro potenza. Troppo a lungo abbiamo creduto con certezza che il passato non sarebbe tornato, che la lezione fosse acquisita”. Parole chiare e nette che non esitano a paragonare i pericoli di oggi alle tragedie del secolo scorso; gli attuali protagonisti a quelli di ieri con addosso “un abito nuovo”.

 

Poi ecco l’impegno politico più significativo, quello che dovrebbe diventare il Credo di ogni governo europeo: “Non cederò nulla, nulla a quelli che promettono l’odio, la divisione o il ripiego nazionale. Non gli lascerò alcuna possibilità di dettare l’agenda”. È diverso il timbro di voce e sono differenti le circostanze in cui parole siffatte vengono pronunciate: ma il loro significato politico e la loro caratura etica sono le stesse che un grande statista britannico, Winston Churchill (per fortuna l’Isola non ha avuto solo premier come Theresa May), pronunciò ai Comuni all’indomani dell’operazione Dunkerque: “Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani; combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria. Difenderemo la nostra isola qualunque possa esserne il costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai”.

 

Potrà dispiacere alle “volpi” di casa nostra (secondo le quali è acerba l’uva che non arrivano a raccogliere), ma il “Discorso della Sorbona” del 26 settembre 2017 è destinato ad entrare nella storia dell’Europa al pari della “Dichiarazione Schumann” del 9 maggio 1950. La “Dichiarazione” diede avvio a quel difficile processo di integrazione europea che il “Discorso” tenta di rimettere in moto, dopo la sua crisi più grave. Tra i due eventi è visibile un comune filo rosso. Quando Robert Schumann (ispirato da quella singolare personalità che fu Jean Monnet) rilasciava la sua dichiarazione erano trascorsi appena cinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale. L’Europa era devastata; alle macerie si aggiungevano milioni di morti; gli odi non erano affatto sopiti. Eppure sette anni dopo furono sottoscritti i Trattati di Roma tra nazioni per due volte nemiche nel corso del “secolo breve”.

 

Macron – che ha vinto le elezioni in Francia all’insegna dell’Europa –  ha speso la sua autorevolezza nel quadro di un dibattito politico che si è consumato nel falò dei luoghi comuni contro l’Unione europea e la moneta unica, indicate come la principale causa dei nostri guai, mentre le politiche di austerità (che poi erano corrette politiche di bilancio rispettose degli equilibri finanziari) venivano descritte come una mania della perfida Germania e di Angela Merkel, responsabili di effetti economici e sociali devastanti; salvo poi dover riconoscere oggi che quelle politiche hanno contribuito alla ripresa dell’economia in corso in tutta l’Eurozona, Italia compresa.

 

La peste anti-sistema ha contagiato i programmi e la linea di condotta di altre forze politiche nella speranza di raccogliere le briciole del consenso attribuito agli avversari. Come sempre i media sono saliti sul carro dei presunti vincitori. L’offensiva delle forze sovranpopuliste sembrava inarrestabile, invincibile. Il principio della “sovranità nazionale” (insieme con una moneta anch’essa nazionale, magari in duplicato con l’euro) era diventato “l’ultimo rifugio della canaglia”. E Macron ha attaccato su questo punto cruciale, prefigurando una nuova “sovranità” in chiave europea, immaginata sul medesimo leitmotiv che fu alla base dell’inizio del percorso: la messa in comune – con l’istituzione della Ceca – di quelle risorse energetiche, economiche e produttive il cui possesso fu la causa di due terribili conflitti mondiali. Sei, secondo il presidente della Repubblica francese, sono “le chiavi della sovranità futura dell’Europa”: la sicurezza attraverso una Difesa comune anche contro il terrorismo e la criminalità; il diritto d’asilo e l’accoglienza; la politica estera; la transizione ecologica; la trasformazione digitale; la lotta alla disoccupazione.

In sostanza, la sovranità non è l’isolazionismo, il fare da sé anche a costo di ignorare le ragioni dell’equilibrio e della sostenibilità delle politiche. La sovranità del prossimo futuro è – secondo Macron – “potenza economica, industriale e monetaria”. Non è più l’epoca in cui le nostre economie possono crescere come se fossero chiuse – ha sostenuto nel “Discorso” – come se i talenti non si muovessero e come se gli imprenditori fossero attaccati a un palo. Quanti promettono di invertire il corso della storia contrabbandano delle idee “che si presentano come capaci di risolvere i problemi rapidamente”. Mentre “le passioni tristi dell’Europa sono ancora qui, che tornano davanti a noi, e seducono. Fanno dimenticare la scia di distruzioni che, nella storia, le ha sempre seguite. Rassicurano, e, oso dirlo, possono prendere il soppravvento […] perché abbiamo smesso di difendere l’Europa, di proporre delle idee. Abbiamo permesso che s’instillasse il dubbio”.

 

Sta dunque qui il senso vero dell’esortazione che proviene da un “Discorso” destinato a consolidare le fondamenta del Vecchio continente. I nemici nostri e dell’Europa non stanno schierati sui confini, ma sono dentro di noi, all’interno delle nostre comunità. Il populismo, il sovranismo e il protezionismo non sono incidenti della storia, ma processi politici e sociali per niente casuali, tanto che si sono sprecate milioni di parole e di pagine per spiegarne le origini e le ragioni; al dunque, per giustificarne il ruolo e la presenza. Noi però non siamo degli analisti; ma dei militanti. E i militanti devono saper combattere e sconfiggere il virus prima che l’epidemia si diffonda.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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