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Quando la Cgil era ancora affiliata alla Federazione sindacale mondiale (FSM), gli ospiti d’onore ai suoi Congressi erano – con l’eccezione della Cgt francese – i sindacati delle c.d. Democrazie popolari, tra i quali spiccava quello dell’URSS (il Paese guida). I sovietici – per tanti motivi – avevano in grande considerazione la Cgil, che era pur sempre il più importante sindacato italiano. La loro delegazione era composta dai massimi dirigenti sindacali, mentre l’intervento di saluto era svolto dal segretario generale, il quale vantava i successi dell’ultimo Piano quinquennale, convinto di rafforzare in questo modo le simpatie degli astanti sulle “magnifiche sorti e progressive” della Patria del socialismo reale. Finito il discorso tra gli applausi dei delegati (“E noi faremo come la Russia chi non lavora non mangerà”, come ammoniva una vecchia canzone popolare dell’inizio del secolo scorso) un altro componente della delegazione si avvicinava al palco della presidenza del Congresso per consegnare un busto di Lenin apparentemente di candido marmo pregiato. In realtà era un oggetto di plastica: chi si fosse predisposto a sostenere lo sforzo necessario a sollevare un solido blocco marmoreo, si accorgeva subito di tenere nelle mani un involucro tanto leggero da sfuggirgli come una palla. Mi fermo qui.
Chi ha avuto la pazienza di leggermi fino a questo punto si chiederà – spero che la faccia con cortesia ed un po’ di curiosità – che cosa “c’azzecca” il busto di Lenin con la riforma Monti-Fornero delle pensioni. È presto detto: a sei anni di distanza (dal prossimo 1° gennaio saranno sette) dalla sua entrata in vigore la disciplina del sistema pensionistico di cui all’articolo 24 del decreto Salva Italia somiglia sempre più al busto di Lenin: apparentemente scolpita nel marmo, in verità composta di un’esile materia come la plastica. In tutto questo tempo, infatti, Governo, Parlamento e Sindacati (nel silenzio assordante di Confindustria) si sono dati da fare per individuare deroghe, uscite di sicurezza, mancate applicazioni, rinvii. Alla fine, in vista della legge di bilancio per il 2018, l’estrema difesa di quella riforma è in corso sul “bagnasciuga” dell’adeguamento automatico all’attesa di vita dell’età pensionabile e dei requisiti contributivi: una battaglia che al dunque si combatte intorno alla decorrenza (il 2019?) dei 67 anni di età per aver accesso alla pensione di vecchiaia. Il ministro Pier Carlo Padoan ha sostenuto, nell’incontro con i sindacati, che il decreto (un atto dovuto di carattere amministrativo) deve essere varato entro l’anno per non “farsi sempre riconoscere” dai mercati. Ma il premier ha concluso l’incontro sottolineando che, alla fine, “il Parlamento è sovrano” (e tutti sanno che, sulla previdenza, i rappresentati del popolo sono come Harvey Weinstein: non se ne fanno scappare una, soprattutto sotto elezioni).
Senza perdere troppo tempo ad almanaccare le norme del “soccorso rosso” disposte dal 2012 ad oggi (otto salvaguardie per i c.d. esodati, l’abrogazione della modesta penalizzazione economica in caso di pensionamento anticipato prima dei 62 anni di età, la revisione in senso più favorevole della normativa sui lavori usuranti, l’introduzione in termini strutturali di uno sconto sul requisito contributivo, a prescindere dall’età, per i c.d. precoci, e, sia pure in via sperimentale, il ‘’pacchetto’’ Ape + Rita) concentriamo la nostra attenzione sui problemi delegati ai tavoli tecnici, allo scopo di trovare, nel corso di questa settimana, soluzioni condivise per emendare il disegno di legge di bilancio. Se non sarà possibile, come ha detto Gentiloni, deciderà il Parlamento (in sostanza i sindacati disporranno di una seconda chance). Dal raggiungere il traguardo dei 67 anni nel 2019 dovrebbero essere esentati gli appartenenti alle 11 categorie di lavoratori (N.B.: solo se dipendenti) indicati come adibiti a lavori gravosi nelle normative di Ape sociale e lavoratori precoci. Ma c’è di più. L’intenzione è quella di manomettere il calcolo dell’aspettativa di vita individuandone uno specifico per le diverse categorie protette (ammesso e non concesso che restino le attuali o al massimo qualcuna in più, anche se è plausibile attendersi la slavina del “vengo anch’io”).
Insomma, ci saranno diversi istituti di carattere previdenziale e/o assistenziale che interverranno sulle medesime platee. Eppure, esiste una disciplina specifica (con requisiti più favorevoli) per i c.d. lavori usuranti, per altro profondamente rivista rispetto all’impostazione restrittiva della riforma Fornero. Si tratta di regole definite dieci anni or sono con criteri abbastanza severi. Le tipologie tutelate sono le seguenti: mansioni particolarmente usuranti; lavoro notturno; a ritmi vincolati; guida di mezzi di trasporto con più di nove persone. Quest’ultima tipologia denuncia una sostanziale discriminazione, se si pensa che il traffico su gomma è svolto in prevalenza da “padroncini” la cui attività non viene ritenuta usurante per il solo motivo che non sono lavoratori dipendenti. Sarebbe stato, comunque, preferibile rivedere – e magari ampliare – queste fattispecie, invece di inventarsi la (sotto)categoria del lavoro disagiato, con il rischio di vere e proprie interferenze (ad esempio: l’infermiere che lavora su più turni è tutelato perché il suo è un lavoro disagiato o perché si svolge anche di notte?).
L’Ape sociale e l’uscita di sicurezza dei c.d. precoci (più il primo che la seconda) avevano il senso di tutelare chi, ad una certa età, veniva a trovarsi nella necessità economica, personale o famigliare di disporre di un reddito-ponte prima di maturare il diritto alla pensione secondo i requisiti previsti. Con la manipolazione dell’età pensionabile, come si sta ipotizzando ora, si creerà solo confusione. E si aprirà la riffa per ottenere il bollino di lavoro disagiato. In fondo, non è stato un grande scrittore del Novecento ad intitolare un suo libro “Lavorare stanca”?
Membro del Comitato scientifico ADAPT