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La grande trasformazione del lavoro in atto sta interessando tutte le attività ed i settori produttivi, ivi incluso il c.d. Terzo settore (o settore non profit), il cui sviluppo ed evoluzione degli ultimi decenni non sono stati affiancati da un’adeguata cornice normativa, ma piuttosto da una plurima serie di regolazioni susseguitesi caoticamente e su linee autonome per le diverse realtà del settore (cooperative sociali, Onlus, imprese sociali etc..).
Com’è noto, con il fine di riordinare e semplificare la disciplina del Terzo settore e per sostenere e responsabilizzare gli enti che vi partecipano, il legislatore ha approvato la legge delega 106/2016, la cui attuazione completa richiede ulteriori 42 atti, tra provvedimenti ministeriali ed autorizzazioni dell’Unione Europea, e la cui piena operatività dovrebbe essere raggiunta entro febbraio 2019 per la disciplina civilistica e gennaio/febbraio 2020 per la disciplina fiscale. Vero è che il processo di attuazione è già iniziato: si annoverano i decreti sul servizio civile universale (d. lgs. 40/2017), sul cinque per mille (d. lgs. 111/2017), sull’impresa sociale (d. lgs. 112/2017) ed il c.d. Codice unico del Terzo Settore (CTS) (d. lgs. 117/2017).
La riforma del Terzo settore consiste dunque in un complesso quadro normativo, tra l’altro non ancora completato, per la cui descrizione ed analisi di dettaglio si rinvia altrove. Ciò che si vuole verificare, attraverso una ricognizione di massima della nuova disciplina, è la coerenza tra la declinazione normativa degli obiettivi della Riforma e quella che, alla luce dei paradigmi dello sviluppo e della socialità, sembra essere “Terzo settore”.
Come emerso nel corso delle giornate di Bertinoro (13-14 ottobre 2017), il concetto tradizionale di Terzo settore quale “mondo di mezzo” tra Stato e Mercato con funzione residuale è obsoleto, non cogliendo da un lato la rilevanza della partecipazione civile e la pluralità delle sue forme espressive, e dell’altro il mutamento in corso della dinamica della politica economica. L’attuale livello culturale, economico e tecnologico determinano un nuovo paradigma dell’economia civile, per cui il soddisfacimento di esigenze di valenza pubblica o collettiva non si esaurisce nel binomio Stato – Mercato, come due polarità contrapposte. Settori come l’istruzione, i beni culturali, l’integrazione, la sanità, l’ambiente etc… vedono la partecipazione di privati (singoli individui, enti, imprese) che agiscono in modi economicamente efficienti e socialmente consapevoli, coadiuvando in una logica paritaria Stato e Mercato.
L’asse portante del nuovo paradigma economico consiste sempre più in tutto ciò che opera tra Stato e Mercato, che include una pluralità più ampia di soggetti ed esperienze di quelli tradizionalmente riconducibili all’area residuale del Terzo settore. In tal senso, è condivisibile l’opinione di chi è arrivato persino a sostenere che la stessa dizione “Terzo settore” abbia ormai ben poco da dire, trattandosi di un concetto vecchio (così Mauro Magatti).
Proprio con riferimento alla definizione di Terzo settore, la riforma registra un cambio di fase, che da concetto di origine sociale diviene un vero e proprio concetto giuridico: per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi.
Sono state tipizzate sette tipologie di enti del Terzo settore (ETS): le organizzazioni di volontariato (ODV), le associazioni di promozione sociale (APS), gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso. È prevista inoltre la tipologia residuale delle associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.
Un’approfondita elencazione si riscontra anche alle attività di interesse generale, tipizzate in 26 categorie (riconducibili a sanità, istruzione, ambiente, reinserimento sociale etc…) suscettibili di essere ampliate con apposito D.p.c.m.
L’insieme di tali indicazioni rende palese la volontà legislativa di ridisegnare il quadro normativo in modo coerente, unitario e coordinato, identificandone chiaramente i contorni, presupposto per un’applicazione efficace della normativa promozionale e di contrasto a fenomeni di opacità, distorsivi e delinquenziali, cui la pregressa normativa lasciava spazio. In questa finalità si inserisce l’introduzione del Registro unico nazionale del Terzo Settore, ancora non operativo, che sostituirà il frammentario sistema regionale di registri e garantirà la conoscibilità e riconoscibilità degli ETS. L’iscrizione a tale registro sarà facoltativa, ma presupposto per acquisire lo status di ETS ed accedere alle agevolazioni per essi previste.
Vero è che la formulazione attuale rischia di “espellere” dalla regolazione giuridica promozionale del Terzo settore dei soggetti che pure operano tra Stato e Mercato nel nuovo paradigma economico.
È il caso delle associazioni o società sportive dilettantistiche (ASD), che non sono espressamente annoverate tra gli ETS, nonostante il riconoscimento del valore sociale dello sport, per le quali può essere anzi conveniente non iscriversi al Registro unico, potendo così fruire del regime fiscale di favore previsto da disposizioni normative non abrogate dalla riforma.
Più in generale, il CTS non ha soppresso varie regolamentazioni parallele e solo per alcune sono previste disposizioni di raccordo, pur non sempre toccate da una mano felice (ad esempio per le imprese sociali e le cooperative sociali). Potenzialmente numerosi soggetti, pur avendo i presupposti per farlo, non si iscriveranno al Registro del Terzo settore, per ragioni giuridiche, fiscali o perché i costi amministrativi richiesti risultano eccessivi rispetto alle dimensioni dell’ente. Pertanto, non saranno assoggettati alla nuova disciplina.
Senza dubbio, la riforma del Terzo settore valorizza non solo il ruolo degli enti che vi operano, ma anche dei singoli individui che vi agiscono, anch’essi protagonisti come gli ETS del nuovo paradigma dell’economia civile che persegue i risultati sociali in rapporto con Stato e Mercato. Ciò è evidente nel rilievo dato al servizio civile universale ed al volontariato, che costituisce il secondo cambiamento di fase riscontrabile nella riforma e che è particolarmente apprezzabile sotto il profilo giuslavoristico. In entrambi i casi il legislatore si è concentrato non solo e non tanto sulla struttura organizzativa – come ad esempio accadeva rispetto alle organizzazioni di volontariato nell’abrogata l. 266/1991 – quanto sullo status riconosciuto al singolo operatore/volontario. Ciò in conformità al ruolo che gli individui possono avere nel nuovo paradigma economico, non ripiegati sui loro interessi autoreferenziali ma capaci di abbinare interessi e preferenze sociali.
La possibilità per i giovani tra i 18 ed i 28 anni di età – attraverso il servizio civile universale – di svolgere da 8 mesi fino ad un anno di attività di utilità sociale (in settori come assistenza, protezione civile, patrimonio storico etc…) può assumere valore su più livelli. Come prima opportunità di svolgere un’attività remunerata, sebbene non sia assimilabile ad alcuna forma di rapporto di lavoro di natura subordinata o parasubordinata. Oppure come mezzo per fruire delle agevolazioni previste dal legislatore, quali il riconoscimento di crediti formativi universitari, di ulteriori punti di valutazione nei concorsi pubblici, o mezzo di inserimento nel mercato del lavoro, in base ad apposite convenzioni tra Stato, Regioni e province autonome ed associazioni di imprese private, associazioni di rappresentanza delle cooperative e altri enti senza finalità di lucro. In realtà, il servizio civile universale si configura come un metodo di ausilio alla costruzione di relazioni tra individuo e comunità, acquisizione di soft skill ed esperienza di crescita personale e professionale, reali elementi di occupabilità in un mercato del lavoro sempre più globalizzato e concorrenziale.
Stesse considerazioni possono farsi per il volontario, che finalmente è espressamente definito dall’art. 17 CTS come la persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclusivamente per fini di solidarietà.
Il CTS, che disciplina in modo tendenzialmente organico il volontariato, promuove l’ipotesi che questi venga svolto in forma non solo associata, ma anche individuale. Sono così colte le nuove forme di volontariato del paradigma economico in divenire, ed è “esaltata la capacità di ciascun volontario di individuare in prima persona quale risposta dare ai bisogni che incontra” (così Luigi Bobba, sottosegretario del Ministero del lavoro e delle Politiche sociali).
Certamente – a differenza dell’operatore volontario del Servizio civile universale – l’attività di volontariato non può essere retribuita, profilo rafforzato dal divieto di rimborsi spese di tipo forfettario, ma solo in base alle spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata.
Escluse le ipotesi anzidette, emerge la pecca dell’assenza di una normazione della materia del Terzo settore dal punto di vista lavoristico e previdenziale. Ciò sarebbe stato opportuno ad esempio per categorie come l’atleta dilettante, ma anche per armonizzare regolazioni che pure rilevano per il CTS (e la disciplina dell’impresa sociale), come quella del socio di cooperativa di cui alla l. 141/2001, chiarendone i rapporti con il lavoro subordinato ed autonomo (un esempio in tal senso si rinviene nel Testo Unico di riorganizzazione delle realtà del Terzo Settore redatto dal giuslavorista Giulio d’Imperio). Né è prevista l’elaborazione di un CCNL per gli Enti del Terzo Settore, che pure presentano esigenze differenti rispetto alle imprese profit delle varie categorie produttive.
Si rinvengono esclusivamente disposizioni puntuali in funzione della specifica tipologia di ETS. Ad esempio, gli obblighi relativi al trattamento retributivo dei lavoratori dell’impresa sociale di cui all’art. 13 d. lgs. 112/2017. Oppure l’obbligo per le ODV e le ASP, ai sensi degli artt. 33 e 36 CTS, di indicare un numero massimo di lavoratori impiegabili in proporzione ai volontari o associati presenti. Disposizioni che comunque presentano criticità. Il criterio di proporzionalità per cui il trattamento retributivo dei lavoratori dipendenti di impresa sociale non può essere superiore al rapporto di 1 ad 8, potrebbe allontanare dal Terzo settore delle professionalità, impoverendolo anche di competenze manageriali di cui necessita. Il “contingentamento” dei lavoratori rispetto ai volontari/associati nelle ODV/ASP determina criticità nel caso di riduzione dei volontari/associati: emerge la questione se può costituire una legittima causa di licenziamento del lavoratore “in sovrannumero”.
La riforma del Terzo settore presenta numerose novità anche sul piano dei controlli e delle agevolazioni fiscali e tributarie, positive nel loro complesso, seppure anch’esse non pienamente rispondenti alle esigenze di un Terzo settore quale attore comprimario del nuovo paradigma economico, insieme a Stato e Mercato. Basta osservare che la regolamentazione tributaria non risponde pienamente alla delega legislativa di essere progettata non più sulla natura delle attività svolte ma sulle finalità effettivamente perseguite dagli ETS.
In definitiva, è indubbio che la riforma del Terzo settore segni un cambio di fase, quantomeno sui profili del superamento del binomio polarizzato Stato – Mercato e del ruolo del servizio civile e del volontariato. La riforma è imperfetta con riferimento ad una piena rispondenza con quello che è l’assetto che il “vecchio” Terzo settore acquisirà sempre più nella grande trasformazione socio – economica in atto. Questa carenza si registra soprattutto sul piano giuslavoristico, dove emerge una ratio legis di contrasto alle distorsioni e abusi in un’ottica di tutela del lavoratore/volontario e del carattere sociale e non lucrativo degli ETS, piuttosto che di regolazione organica. In tal senso, la promozione di forme di prestazione di lavoro (volontariato e servizio civile) estranee alle logiche del lavoro oneroso, della retribuzione sufficiente e dell’equo compenso e prossime a quelle della gratuità sono foriere di rischi. Il rischio che più si paventa è quello del deprezzamento del valore del lavoro nel Terzo settore. La diffusione massiva di volontari e operatori del servizio civile nei settori di attività di interesse generale potrebbe determinare fenomeni concorrenziali al ribasso certamente a vantaggio dello sviluppo e diffusione degli ETS, ma a discapito delle forme di lavoro subordinato ed autonomo, e del trattamento economico e normativo ad esse connesso.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo