Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, lo ha ammesso qualche giorno fa: “Sui competence center siamo tragicamente in ritardo”. Uno dei pilastri del piano Industria 4.0 fin dalle sue origini manca ancora all’appello. E il decreto per istituire i futuri anelli di congiunzione tra il mondo dell’impresa e quello della ricerca non esce dai gangli della burocrazia. Nel frattempo Elena Prodi, apprendista di ricerca di Adapt, l’Associazione per gli studi internazionali e comparati sul diritto del lavoro e le relazioni industriali fondata da Marco Biagi, ha tracciato in un volume di 36 pagine la lezione da imparare dai parchi scientifici e tecnologici. Dopo aver posto il problema della differenza di fatto tra i competence center all’italiana da quelli di altri Paesi d’Europa, ora la ricercatrice suggerisce buone pratiche da copiare ed errori da evitare.
Cosa fare
Secondo Prodi, i competence center italiani dovrebbero “stimolare i processi di innovazione a partire dal lato della domanda, espressione dei fabbisogni del sistema delle imprese e più in generale di tutti gli attori che concorrono alla creazione delle catene globali del valore”. Quindi non decidere a priori quali temi meritano di essere studiati e quali no, ma confrontarsi con le aziende che da quelle ricerche dovranno trarre spunti e basi per applicazioni pratiche e industriali…
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