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Il primo V-Day si svolse l’8 settembre 2007; non già a Roma o in una qualche città più o meno sgarrupata del Mezzogiorno. Si trovarono in cinquantamila in Piazza Maggiore non a sentire un concerto di Dino Sarti (come avveniva, negli anni ’70, nella notte del 14 agosto) ma ad ascoltare frasi in libertà, gli improperi e le parolacce di un comico genovese con il cognome di un insetto. Chi era costui e come si permetteva di parlare a vanvera laddove avevano svolto comizi Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Giuseppe Dozza e gli altri sindaci della città delle Due Torri fino ai più prestigiosi leader sindacali? E come mai tanti cittadini – avvezzi a ben altra caratura politica e civile – erano andati a sentirlo? Forse si aspettavano uno spettacolo comico gratuito: in quel pomeriggio non giocava il Bologna, tanto valeva fare una cosa diversa da quelle consuete sul “crescentone” di Piazza Maggiore.
In pratica, ben pochi presero sul serio quell’evento, né si immaginarono che stesse sorgendo una nuova forza politica destinata a diventare in un decennio il primo partito su scala nazionale (come scaturì dalle urne già nelle elezioni politiche del 2013). Ma perché partire proprio da Bologna, la città tuttora ritenuta (magari con un po’ di esagerazione e tanta nostalgia del passato) un modello di buona politica, di convivenza civile e di benessere economico? Capita che certi processi che covano dell’ES (l’istanza intrapsichica che contiene le spinte pulsionali di carattere erotico, aggressive ed auto-distruttive) di una comunità, vengano sollecitati ad emergere all’improvviso, senza che vi fosse consapevolezza della loro dimensione e profondità.
Trascorsi 10 anni, Bologna è stata teatro di un altro V-Day, questa volta di carattere sindacale, nell’azienda-modello dell’industria metalmeccanica e del settore strategico delle macchine automatiche del packing: la GD, del gruppo Seragnoli, 1.800 dipendenti, leader mondiale delle macchine per la lavorazione del tabacco e che, per la qualità del prodotto, non ha mai avuto serie difficoltà di mercato, al punto che non si ricorda se talvolta abbia fatto richiesta dell’intervento degli ammortizzatori sociali, sia pure per un periodo di cassa integrazione ordinaria.
La GD fa parte del gruppo Coesia (sempre di proprietà di Isabella Seragnoli composto da 18 aziende: ACMA, CERULEAN, CIMA, CITUS KALIX, EMMECI, FLEXLINK, GD, GDM, GF, HAPA, IPI, MGS, MOLINS, NORDEN, R.A JONES, SACMO, SASIB, VOLPAK. Il Gruppo ha 97 unità operative (57 delle quali sono impianti produttivi) in 32 paesi, un fatturato atteso nel 2017 di circa 1,6 miliardi di euro e circa 6.800 dipendenti.
La GD è un’azienda fortemente sindacalizzata; negli ultimi 50 anni la Fiom ha tenuto la scena riducendo le altre federazioni della Cisl e della Uil a fugaci comparse, con un peso talmente minoritario così da contare ben poco nelle iniziative sindacali a livello aziendale. Addirittura, quando imperversavano le polemiche sulle piattaforme e gli accordi separati, la Fiom riuscì ad imporre, per via negoziale, alla Direzione aziendale una procedura di consultazione preventiva dei lavoratori dalla quale scaturisse il carnet rivendicativo da prendere a riferimento fin dall’inizio del negoziato (che immancabilmente non poteva che essere quello della Fiom stessa). Nessuno pensi che la federazione dei metalmeccanici della Cgil sia una sorta di sindacato “giallo”; a Bologna e in Emilia Romagna – se è consentito il paragone – ad essere “gialle” sono le imprese, soprattutto quelle più importanti e qualificate ed in particolare del settore pregiato delle macchine automatiche.
Bene. In tale contesto, tracciato in estrema sintesi (è corretto aggiungere che Isabella Seragnoli è molto impegnata anche a mantenere viva la “memoria” industriale bolognese con iniziative culturali sul territorio) l’autunno è diventato all’improvviso freddo. La normale dialettica sindacale in quella fabbrica si trasformata in una tragicommedia in tre tempi. Il primo atto consiste nella stipula di un accordo aziendale che attira l’interesse dei commentatori per le sue soluzioni innovative (che si aggiungono ad un welfare aziendale di tutto rispetto), a cui si guarda quasi con un compiacimento misto a sorpresa. La gente si domanda: “Ma questa GD è per caso una ‘zona liberata’”?
La parte più interessante dell’intesa è quella che riguarda la gestione degli orari di lavoro. Si prevede che all’interno della fascia quotidiana di attività, dalle 7 alle 19, sia il dipendente a scegliere come organizzare le otto ore canoniche di turno, con 45 minuti di pausa pranzo. Ogni lavoratore, su base volontaria e con un periodo di sperimentazione che durerà 6-8 mesi prima che il sistema diventi definitivo, potrà infatti decidere se entrare subito e uscire prima o, viceversa, entrare più tardi magari per accompagnare i figli a scuola e poi trattenersi più a lungo sul posto di lavoro, così come spezzare diversamente mattina e pomeriggio. Ne sono esclusi, ovviamente, gli operai impiegati nei turni.
Inoltre, nel testo sono previsti progetti di alternanza scuola-lavoro, future sperimentazioni sullo smart working, un occhio di riguardo alla formazione con tutor esperti che insegnino ai più giovani e un intero capitolo su Industria 4.0, con tavoli di confronto periodico coi sindacati per discutere preventivamente delle ricadute delle trasformazioni tecnologiche introdotte.
Ma ci sono anche più diritti individuali e un sistema di diritto allo studio per i dipendenti. Ricca la parte economica, con premi di risultato che aumentano tra 2018 e 2021 da 2.900 a 3.100 euro (in sostanza fino a 12mila euro in quattro anni), un’una tantum da 800 euro e rivalutazioni dell’8% per i lavoratori trasferisti. Seguendo la prassi si va al referendum tra i lavoratori dopo le assemblee di illustrazione. E qui arriva la prima sorpresa.
L’accordo passa di strettissima misura (per una trentina di voti in più): tale esito determina stupore e grida d’allarme (nel 2012 il precedente era stato approvato col voto bulgare del 94). Si pensa ad una sbandata dovuta all’azione di un ex dirigente Fiom, avversario di Maurizio Landini e perciò uscito dalla Fiom, il quale ha fondato la USB (Unione sindacale di base). Si sottolinea pure la protesta dei trasferisti che non si sono ritenuti sufficientemente tutelati. Ma in questo settore i lavoratori sono circa 150; possono rappresentare la classica goccia che fa traboccare il vaso, ma lo zoccolo del dissenso è evidentemente più ampio.
Con l’obiettivo e la speranza di recuperare lo shock si va alle elezioni della Rsu. È qui crolla il mondo. Dalle urne esplodono come una bomba i seguenti risultati: su 1.246 voti validi la USB, che non era mai stata presente, ne ha ottenuti 547, la Fiom 467 (la volta scorsa furono 774 su 993). Alla Fim sono andati 137 voti e 95 alla Uilm. Questi risultati modesti – ma pur sempre in lieve aumento – delle altre due federazioni (comunque largamente minoritarie) dimostrano che la crisi è tutta all’interno della Fiom. Su 36 delegati 16 vanno al sindacato di base. A questo punto per fare maggioranza nelle riunioni della RSU la Fiom ha bisogno dei sette delegati (4 + 3) di Fim e Uilm, quando era abituata, da decenni, a fare da sé. Mentre, stavolta la Fiom ha eletto 13 delegati su 36 (col 37% dei voti).
Il comunicato della segreteria territoriale è lo specchio di un’organizzazione a cui è caduta in testa una grossa mela, ma che, a differenza di Isaac Newton, non è in grado di approdare alla legge di gravità. “Il clima degli ultimi giorni – è scritto – è stato la diretta conseguenza di quanto si è vissuto in GD nei giorni del voto sul recente Accordo aziendale, un voto che ha consegnato una fabbrica spaccata, e che ha registrato un elevato livello di dissenso. Abbiamo visto un tentativo di attaccare il sindacato confederale e i suoi delegati. Quel clima ha prodotto una forma di vero e proprio “populismo sindacale” che si è tradotto anche nel voto per la RSU. …… È evidente – aggiunge il comunicato – che c’è un rapporto con i lavoratori da ricostruire e questo sarà il primo dei nostri compiti ed impegni. Indubbiamente si tratta di una sconfitta”.
Ma ci sarà la slavina? Il caso GD si ripeterà anche in altre aziende che nei prossimi giorni procederanno alla elezione degli organi di rappresentanza? Dalla Ducati Meccanica è giunto, entro i giorni immediatamente successivi, un segnale confortante: la Fiom conserva la maggioranza assoluta. Ma tutti ormai volgono lo sguardo in direzione della Toyota con i suoi 500 dipendenti, che vanno al voto nelle prossime ore. Anche lì un transfuga – in dissenso con i contenuti del nuovo contratto collettivo nazionale – è passata alla USB.
Si scopre poi che la GD non è la prima azienda importante in cui il sindacalismo sedicente di base erode l’elettorato della Fiom. A parte la Marcegaglia di Ravenna, il dato più eclatante è quello dell’Ilva. Ma nel gruppo siderurgico la Fiom ha scontato la sua remissività nei confronti della Procura di Taranto. Comunque si tratta di situazioni non certo paragonabili a quella della GD.
Premettiamo – ne siamo convinti – che tutto ciò che è reale sia anche razionale (Hegel) nel senso che vi sono sempre dei motivi che spiegano quanto è avvenuto; il che non porta con sè l’assioma da cui dedurre che tutto quello che è razionale sia anche positivo. A volerle cercare anche il nazismo ha delle spiegazioni. Nel caso della GD sono abbastanza banali. Quando si spara sul quartier generale, si finisce per non fare più attenzione al colore della bandiera che sventola sui pennoni. Ciascun vessillo prima o poi diventa nemico, perché è innestato su di un quartier generale, qualunque esso sia: e alla GD nella “stanza dei bottoni” sedeva la Fiom, in qualità di membro permanente e dominante.
Del resto, senza infilarsi in paragoni forzati, quando le persone nella cabina elettorale contrassegnano il simbolo del M5S, soltanto per esprimere un voto “contro”, perché meravigliarsi se seguono la medesima linea di condotta quando devono giudicare un accordo sindacale (che è comunque una cosa pressoché insignificante se paragonata con i possibili effetti delle politiche di governo del Paese)? Se le indicazioni che vengono (basta accendere la televisione la sera) è quella di sfasciare tutto, perché esentare il sindacato?
Del resto Marco Bentivogli, la speranza del sindacato italiano, lo aveva scritto nella sua relazione congressuale nel giugno scorso. Dopo aver ammesso che l’avanzata populista ha fatto proseliti anche nelle file del sindacato, Bentivogli ha centrato la questione centrale: “l’obiettivo dei populisti è di far muovere le persone avendo come solo orizzonte il proprio naso, condizione che, come è noto, ci consente solo di star fermi o andare a sbattere”.
È questa una considerazione che si ritrova anche in un’intervista del bolognese Filippo Taddei sul caso GD: “Le persone usano come punto di partenza la loro condizione effettiva. Se sei abituato a standard elevati parti di lì e non ti basta sentirti dire che questo accordo è meglio di quelli firmati in altre fabbriche”. Sarà anche vero; ma questo approccio è parte integrante del cupio dissolvi che sta distruggendo la società.
Membro del Comitato scientifico ADAPT