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Durante il corso modenese di diritto del lavoro, abbiamo sperimentato un nuovo modo di fare didattica, ossia teso a chiamarci come protagonisti in aula, non semplici uditori.
Tra queste attività, le cui tracce sono raccolte in un luogo virtuale, libero ed aperto come twitter (reperibile all’hashtag #DirLav2017), siamo stati coinvolti in un debate collettivo circa la modernità o meno del concetto, inteso come strumento di organizzazione aziendale e professionale, dell’“orario di lavoro”.
Prima di esporsi apertamente verso la valutazione dell’opportunità di utilizzare ancora questo concetto nella dimensione aziendale, in aula abbiamo distinto e definito il “telelavoro” e il “lavoro agile”, pur all’interno di una difficile ricostruzione normativa e delle fonti del diritto coinvolte.
L’accordo interconfederale per il recepimento dell’accordo-quadro europeo sul telelavoro (2004) definisce il telelavoro come una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa. Come si evince, il telelavoro in Italia non è dunque coperto da una specifica legislazione che ne prescrive i metodi e le regole di attuazione.
La recente Legge del 22 maggio 2017 n. 81 promuove il lavoro agile (o smart-working) come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.
La normativa inizia definendone gli obiettivi alla base, nonché l’agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro e l’incremento della produttività, la cui stagnazione rappresenta, fin dalla metà degli anni ’90, il vero male oscuro del nostro sistema.
Dunque, quando siamo di fronte a forme di telelavoro e/o lavoro agile non stiamo prendendo in considerazione contratti di lavoro bensì modelli organizzativi del lavoro.
È bene sgombrare il campo da qualsiasi equivoco di fondo: il (nuovo) lavoro agile non è una nuova forma (o una forma rinnovata) di telelavoro. Appare, piuttosto, come una sua evoluzione sostanziale. Tuttavia, rimane il fatto che la l. n. 81/2017 non superi ancora l’orario di lavoro perché essa rimanda al D. Lgs. 66/2003, in tema di organizzazione degli orari di lavoro.
Nell’analisi delle fonti, personalmente ho delineato, anche sulla scorta delle sollecitazioni di altri colleghi coinvolti nel dibattito in aula, un profilo significante e che potrebbe risentire negativamente della archiviazione di un arnese come l’orario di lavoro.
Il mondo sta cambiando e con esso si assiste ad una grande trasformazione del lavoro contemporaneo su scala globale. Dopo il declino della fabbrica fordista, si è assistito all’esplosione di forme atipiche e autonome di lavoro, ancora all’evoluzione dei mestieri, delle competenze e delle professioni. Questo quadro moderno, tuttavia, non si scontra con strumenti del passato che garantiscono il benessere (la realizzazione, il completamento) della persona nel contesto lavoro.
L’accordo interconfederale per il recepimento dell’accordo-quadro europeo sul telelavoro, art. 8, comma 3, dice: “Il datore di lavoro garantisce l’adozione di misure dirette a prevenire l’isolamento del telelavoratore rispetto agli altri lavoratori dell’azienda, come l’opportunità di incontrarsi regolarmente con i colleghi e di accedere alle informazioni dell’azienda.”
Il legislatore del telelavoro, in sintesi, prevedeva che la modalità di lavoro normata potesse incidere sul distacco del singolo lavoratore dal contesto professionale collettivo. Il timore paventato si realizza, a mio parere, quotidianamente minando le relazioni tra le persone che lavorano insieme.
Certo, le forme atipiche di lavoro che in questo senso “rischiose” sono sicuramente interessanti e necessarie per consentire, almeno in via teorica, la c.d. work-life balance, ossia la capacità di bilanciare in modo equilibrato il lavoro e la vita privata. Tuttavia il centro del lavoro è rappresentato dal lato umano, dal rapporto di lavoro, dalle relazioni che nascono nei luoghi di lavoro, proprio perché l’essere umano non è un robot.
In definitiva, secondo il mio punto di vista, non si può parlare di orario di lavoro come un arnese vecchio da buttare. Esso può essere associato a scelte di bilanciamento e flessibilità, senza però che scompaia la necessità di dedicare tempo alla vita aziendale e al lavoro svolto insieme ai colleghi. L’immaginario collettivo vede l’orario di lavoro come il “semplice” gesto del timbrare il cartellino, ma non è (solo) questo, è sinonimo di interazione, team working, capacità di mettersi in gioco.
Bruno Colletta
Studente #DirLav2017, II anno in Economia Aziendale,
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia