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Il socio lavoratore, escluso dalla società cooperativa e licenziato, potrà contestare la legittimità del licenziamento anche senza impugnare la delibera di esclusione con la conseguenza che in caso di recesso illegittimo potrà ottenere la sola tutela risarcitoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604/1966. È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 27436 del 20 novembre 2017 affrontando il tema relativo alla tutela applicabile al socio lavoratore di cooperativa licenziato e contestualmente escluso dalla realtà societaria. L’organo giudicante ha risolto il contrasto giurisprudenziale sorto sulla possibilità di contestare la legittimità del licenziamento ed ottenere il riconoscimento della tutela reale anche nel caso in cui il socio lavoratore non abbia impugnato la delibera di esclusione nei termini e nelle modalità prescritte dall’art. 2533 cod. civ. La Corte ha chiarito che «in caso di impugnazione, da parte del socio, del recesso della cooperativa, la tutela risarcitoria non è inibita dall’omessa impugnazione della contestuale delibera di esclusione fondata sulle medesime ragioni, afferenti al rapporto di lavoro, mentre resta esclusa la tutela restitutoria».
Un primo orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. 23 gennaio 2015, n. 1259; Cass. 11 agosto 2014, n. 17868; Cass. 6 agosto 2012, 14143) aveva stabilito che qualora l’esclusione di un socio lavoratore di cooperativa fosse stata fondata esclusivamente sul suo licenziamento, non si sarebbe configurata l’ipotesi propria dell’art. 5, comma 2 della legge 3 aprile 2001, n. 142 che prevede la caducazione del rapporto di lavoro al venir meno del rapporto societario. Secondo questa tesi, la ragione dell’esclusione risiederebbe unicamente nelle motivazioni addotte per il licenziamento; di conseguenza qualora si dovesse accertare l’illegittimità del licenziamento che ha comportano l’esclusione, anche la delibera di espulsione risulterebbe travolta dall’illegittimità. Ciò comporterebbe l’applicazione dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300. Attraverso queste argomentazioni, la giurisprudenza superava l’ostacolo normativo posto dall’art. 2 della legge 3 aprile 2001, n. 142 che dispone «l’esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo». A questo orientamento le Sezioni Unite rimproverano «il capovolgimento della relazione di dipendenza prefigurata dal legislatore (cfr. artt. 2 e 5, comma 2 della legge 3 aprile 2001, n. 142) tra l’estinzione del rapporto associativo e quello del rapporto di lavoro» ([1]). Infatti, seppur distinti, la legge fa riflettere gli effetti estintivi del rapporto societario sul rapporto di lavoro, comportando così la risoluzione di diritto del rapporto di lavoro tutte le volte che viene meno il rapporto societario.
Un altro orientamento (cfr. Cass. 13 maggio 2016, n. 9916; Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802; 5 luglio 2011, n. 14741) aveva invece ritenuto che «al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro, sarebbe unico il procedimento volto all’estinzione di entrambi» ossia la delibera di esclusione, che va impugnata nei termini prescritti dalla legge, non essendo necessario un distinto atto di licenziamento. Sostanzialmente, l’impugnazione della delibera davanti al Tribunale Ordinario fungerebbe da condizione di procedibilità per il ricorso da presentare al Tribunale del Lavoro ([2]), al venire meno della quale qualsiasi discussione nel merito delle ragioni poste alla base del licenziamento è preclusa. La conseguenza di questa impostazione, ravvisano le Sezioni Unite, è quella di non consentire al giudice di esaminare nel merito la legittimità del licenziamento in caso di mancata impugnazione della delibera di esclusione ex art. 2533 cod. civ. Rispetto a questa ricostruzione, le Sezioni Unite osservano che «alla duplicità di rapporti può corrispondere la duplicità degli atti estintivi, in quanto ciascun atto colpisce, e quindi lede, un autonomo bene della vita, sia pure per le medesime ragioni». Secondo la Corte, quindi, la delibera è finalizzata a far cessare lo stato di socio, mentre il licenziamento è finalizzato a far cessare l’«ulteriore» rapporto di lavoro.
Analizzati gli orientamenti contrastanti, quid iuris per il socio lavoratore escluso e licenziato che abbia impugnato solo il secondo atto di recesso (collegato al rapporto di lavoro) e non il primo (collegato al rapporto societario)? La situazione di fatto sottesa alla decisione presa dalle Sezioni Unite riguarda l’esclusione ed il licenziamento per giusta causa di un socio lavoratore per aver aggredito un suo superiore. Il socio lavoratore, nel contestare le ragioni del recesso, si è limitato solo ad impugnare il licenziamento, senza invece contestare anche l’esclusione dalla società cooperativa. Il primo grado di giudizio si è risolto parzialmente in favore del lavoratore in quanto il Tribunale ha accertato l’illegittimità del licenziamento ma non ha applicato la tutela reale prevista dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 bensì la tutela risarcitoria prevista dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 secondo cui in caso di accertata insussistenza della giusta causa di licenziamento, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore «entro il termine di tre giorni» o in alternativa ad erogare un’indennità risarcitoria parametrata sull’ultima retribuzione globale di fatto percepita, la cui quantificazione varia in relazione «al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». L’esclusione dell’applicazione della tutela reale è stata determinata dal fatto che il lavoratore non aveva impugnato anche la delibera di esclusione come prescritto dalla legge ma solo l’atto di recesso dal rapporto di lavoro. Diversamente, la Corte d’appello ha sostenuto che «al cospetto dei due contestuali atti estintivi, di esclusione dalla cooperativa e di licenziamento, potesse essere impugnato anche soltanto il secondo, senza necessità di impugnare il primo». La società cooperativa ha presentato ricorso presso la Corte di Cassazione per violazione e falsa applicazione degli artt. 1322 e 2533 cod. civ. e degli artt. 1, 2 e 5 della legge 3 aprile 2001, n. 142. I giudici di legittimità, «ravvisata la sussistenza di contrasti (giurisprudenziali) esistenti in materia» hanno sottoposto la questione al Primo Presidente della Corte di Cassazione che ha assegnato la risoluzione del caso alle Sezioni Unite.
Le Sezioni Unite osservano che la questione relativa ai rimedi esperibili contro l’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore possa essere risolta presupponendo che in capo a quest’ultimo «coesistono più rapporti contrattuali e che, quindi, il lavoro cooperativo è luogo di convergenza di più cause contrattuali». Infatti, l’art. 1, comma 3 della legge 3 aprile 2001, n. 142 prevede che «il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali». La distinzione del rapporto sociale da quello lavorativo si è resa necessaria per via legislativa alla luce dell’«espansione del fenomeno della cooperativa spuria o fraudolenta», cioè di società cooperative costituite non per perseguire gli scopi prefissati dalla legge ma soltanto per accedere ad alcuni benefici accordati dal quadro normativo di riferimento e mascherare rapporti di lavoro tipicamente subordinati.
Per effetto dell’art. 5, comma 2 della legge 3 aprile 2001, n. 142, al socio lavoratore licenziato ed escluso con delibera regolarmente comunicata e non impugnata è precluso «il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore». Sostanzialmente, le tutele previste dall’art. 18 della legge 20 maggio 1973, n. 300 sono ammissibili solo nei casi in cui venga impugnata la delibera e che questa sia dichiarata illegittima. Questo perché la tutela garantita contro l’ingiusta esclusione è di matrice diversa rispetto a quella “lavoristica” prevista per il licenziamento illegittimo in quanto attengono a due tratti fisionomici del rapporto, quello sociale e quello di lavoro. Una volta decorsi i sessanta giorni dalla comunicazione della delibera, se questa non viene impugnata, produce l’effetto estintivo del rapporto sociale. Tuttavia, questa condizione «non esclude l’illegittimità del licenziamento» né tantomeno fa venire meno «l’interesse a far valere l’illegittimità del recesso» poiché la delibera di esclusione, producendo la caducazione del rapporto di lavoro, anche se non contestata, genera un danno. Inoltre, l’art. 2 della legge 3 aprile 2001, n. 142 preclude la sola tutela prevista dall’art. 18 ma viene lasciata impregiudicata «l’esperibilità di tutela diversa da questa, ossia quella risarcitoria contemplata dall’art. 8 della legge 16 luglio 1966, n. 604, sempre dovuta qualora il rapporto non si ripristini». Ciò perché «l’accoglimento della domanda risarcitoria non travolge gli effetti della delibera di esclusione; e non impedisce neppure che essa continui a produrre i propri effetti». La domanda giudiziale per il riconoscimento della tutela risarcitoria ha ad oggetto «il diritto ad un ristoro per il fatto che la cessazione del rapporto ha cagionato un danno e l’ha provocato illegittimamente».
Le Sezioni Unite chiariscono anche che non è condivisibile ritenere che il lavoratore che voglia chiedere la tutela risarcitoria ex art. 8 della legge 16 luglio 1966, n. 604 debba comunque impugnare la delibera di esclusione poiché l’impugnazione dell’atto di esclusione è presupposto per il riconoscimento della tutela ex art. 18 ma non per quella risarcitoria. Infatti, osserva la Corte che «in virtù dell’art. 24 Cost., spetta al titolare della situazione protetta scegliere a quale tutela far ricorso per poter ottenere ristoro del pregiudizio subito». Quindi, il socio lavoratore escluso avrà certamente la possibilità di tutelare la propria posizione o con l’impugnazione della delibera ex art. 2533 cod. civ. e con l’impugnativa del licenziamento oppure optare per la sola contestazione del licenziamento sapendo che potrà ottenere, in caso di vittoria del giudizio, solo la tutela indennitaria e non quella reale.
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([1]) Una recente pronuncia di merito (cfr. Ordinanza del Tribunale di Velletri del 17 gennaio 2017, Giud. Est. B. Marrani) critica tale orientamento perché, pur riconoscendo che una tale interpretazione sia stata resa in un’ottica di maggior tutela del socio lavoratore, finisce tuttavia per attribuire netta priorità al rapporto di lavoro rispetto a quello associativo. Infatti, non sono poche le pronunce della giurisprudenza di legittimità a ritenere che la delibera debba essere impugnata dinanzi al giudice ordinario mediante lo strumento previsto ad hoc dal codice civile (sul punto cfr. Cass. Civ. 12 febbraio 2015, n. 2802; Cass. Civ. Sez. I, 3 aprile 2014, n. 7877; Cass. Civ. Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26211; Cass. Civ. Sez. I, 5 dicembre 2011, n. 25945; Cass. Civ. 6 dicembre 2010, n. 24692; Cass. Civ. Sez. I, 20 luglio 2004, n. 13407; nel merito v. Trib. Milano, sentenza del 18 ottobre 2012).
([2]) Cfr. Trib. di Velletri, ordinanza del 17 gennaio 2017, Giud. Est. B. Marrani secondo cui la delibera di esclusione determina l’estinzione ipso iure del rapporto di lavoro con assorbimento di qualsivoglia questione in merito alla sorte del licenziamento, pur di fatto irrogato. Di conseguenza, la mancata e tempestiva impugnazione in giudizio della delibera di esclusione non consentirebbe di emettere alcuna statuizione in merito al licenziamento, stante l’effetto estintivo legale causato dal provvedimento di natura societaria, divenuto irretrattabile se non impugnato.