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Capitale e Lavoro hanno a lungo definito la nostra civiltà. Prima di Smith, Ricardo e Marx, quando ancora non esisteva il “capitale” nel senso moderno ([1]), già Aristotele, nella Politica, afferma che la schiavitù avrebbe smesso di essere necessaria se le macchine si fossero messe in moto da sole. Come osserva il filosofo di origine russa Alexandre Koyré, in un suo saggio che torna di attualità, Aristotele sembra supporre che ci siano lavori indegni di un uomo libero, troppo noiosi, ripetitivi, da assegnare agli schiavi: «Davvero degno di nota – osserva Koyré – che Aristotele abbia compreso così bene l’essenza stessa della macchina, l’automatismo, che le macchine hanno realizzato pienamente nei nostri tempi! […] Ci si può domandare se è Aristotele che s’inganna, sopravvalutando la natura umana, o se siamo noi che ci illudiamo chiamando “liberi” uomini condannati a lavori da schiavi!» ([2]).
Scrive Aristotele, con lucidità ancora impressionante millenni dopo:
Degli strumenti alcuni sono inanimati, altri animati (ad esempio per il capitano della nave il timone è inanimato, l’ufficiale di prua è animato; in effetti nelle arti il subordinato è una specie di strumento): così pure ogni oggetto di proprietà è strumento per la vita e la proprietà è un insieme di strumenti: anche lo schiavo è un oggetto di proprietà animato e ogni servitore è come uno strumento che ha precedenza sugli altri strumenti. Se ogni strumento riuscisse a compiere la sua funzione, o dietro un comando, o prevedendolo in anticipo e, come dicono facciano le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto i quali, a sentire il Poeta, «Entrano di proprio impulso nel consesso divino», così se anche le spole tessessero da sé e i plettri suonassero da soli la cetra, i capi artigiani non avrebbero davvero bisogno di operai, né i padroni di schiavi. Quindi i cosiddetti strumenti sono strumenti di produzione, un oggetto di proprietà, invece, è strumento d’azione: così dalla spola si ricava qualcosa oltre l’uso che se ne fa, mentre dall’abito e dal letto l’uso soltanto. Inoltre, poiché produzione e azione differiscono specificamente ed hanno entrambe bisogno di strumenti, è necessario che anche tra questi ci sia la stessa differenza. Ora la vita è azione, non produzione, perciò lo schiavo è un subordinato nell’ordine degli strumenti d’azione. Il termine “oggetto di proprietà” si usa allo stesso modo che il termine “parte”: la parte non è solo parte d’un’altra cosa, ma appartiene interamente a un’altra cosa: così pure l’oggetto di proprietà. Per ciò, mentre il padrone è solo padrone dello schiavo e non appartiene allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui.
La meditazione di Koyré su Aristotele come filosofo ante litteram della robotica, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale è data dal suo Les philosophes et la machine del 1961, quando ancora Stati Uniti ed Europa vivono il boom industriale seguito alla Seconda guerra mondiale. Nel 1968, poche settimane prima di essere ucciso, il Senatore dello Stato di New York Robert Francis Kennedy poté giustamente accusare il Pil «di essere la misura di ogni cosa, tranne di quello per cui vale la pena di vivere». Allora, ahinoi, la crescita sembrava non conoscere soste, e dunque era giusto che politici come il giovane Kennedy, registi come Mike Nichols del film Il laureato del 1967 o poeti come Elio Pagliarani de La ragazza Carla (poemetto sull’alienazione della metropoli neocapitalista scritto fra il 1954 e il 1957 e pubblicato nel 1960) proponessero di non concentrarsi su lavoro, carriera, benessere materiale ma piuttosto di provare ad essere donne e uomini liberi e felici. Oggi insistere sulla “decrescita felice”, come troppi astuti “economisti” da ingaggio ai talk show, vuol dire non conoscere le periferie desolate della deindustrializzazione, che lo studioso Barry Bluestone intravedeva in The Industrialization of America nel 1982, poi cantate dal rapper bianco Eminem e portate a Hollywood dai satirici documentari del regista Oscar Michael Moore.
Un paradosso lega infatti Aristotele ai robot: la relazione tra uomo e macchina sarà alleanza o conflitto? La macchina era alleata degli operai, secondo l’auspicio dell’inno dell’Internazionale comunista:
E la macchina sia alleata
non nemica ai lavorator;
così la vita rinnovata
all’uom darà pace ed amor!
Ma nel XXI secolo rischia di toglier loro il posto, il salario, perfino lo stato di cittadino nella democrazia globale. I leader populisti accusano la globalizzazione e i commerci di aver fatto delle nostre officine un deserto, ma è vero invece che l’automazione è stata il motore immobile, nel bene e nel male, del nostro tempo. Parlare di lavoro da creare e di lavoro che scompare, parlare di nuove mansioni e antichi mestieri perduti non è dossier da economisti, sociologi, storici: è la decisiva partita su natura e futuro delle società aperte. Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, notava come nella sua azienda si praticasse almeno una dozzina di mestieri che non esistevano all’inizio del secolo. Il World Economic Forum prevede che la maggioranza dei nati quest’anno, nel mondo sviluppato, potrebbe fare lavori che padri e nonni non conoscevano.
Francesco Nespoli, del laboratorio ADAPT di Michele Tiraboschi, instancabile studioso, allievo di Marco Biagi, il docente ucciso dalle Brigate Rosse nel 2002, affronta nelle pagine seguenti, con grinta e acribia, questa transizione di epoche. Lavoro, automazione, politica, società, economia, cultura sono i temi del libro, affrontati però dal punto di fuga della comunicazione. Non sembri al lettore prospettiva minore. Al contrario, discutendo del Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, o della svolta a trattative e contratti con i sindacati impressa dall’amministratore delegato della Fiat-Chrysler Fca, Sergio Marchionne, Nespoli dimostra che, nel secolo digitale e on-line, “come” una riforma o un contratto vengono “comunicati” è destinato ad essere parte integrale del suo esito. Non importa soltanto “quali” novità la realtà imponga, importa anche, forse soprattutto, “come” l’opinione pubblica recepisce i nuovi eventi o “quanto”, per cultura e tradizione, è in grado di assimilarli e gestirli. Nespoli è abile nell’individuare, per esempio, come Marchionne abbia tenuto rapporti diversi con il sindacato, più difficili da noi, più dialoganti negli Usa. Non si tratta di duttile tattica negoziale, né delle differenti storie delle due Nazioni, è una differente strategia di comunicazione, una diversa narrazione dei fatti attuata per ottenere un migliore scenario.
Nei giorni più duri della trattativa Marchionne-sindacato in Italia, spenta l’eco degli elogi che, tra gli altri, l’ex Presidente comunista della Camera Fausto Bertinotti aveva espresso al dirigente Fiat, ricordo – ero allora direttore de Il Sole 24 Ore – le resistenze e l’incomprensione che, da settori dello stesso mondo imprenditoriale, avversavano il “metodo Marchionne”. Rompere con il metodo antico della contrattazione notturna, che alla fine rinviava sempre i nodi, senza mai scioglierli al contrario di Alessandro a Gordio, con i giornalisti a far notte tarda, pratica estenuante, bizantina e a somma zero, in cui nessuno vinceva e nessuno perdeva, nulla cambiava e pubblica finanza e debito pubblico spesso pagavano il conto – vedi Alitalia –, sgomentava. Perché la Fiom, ma anche parte degli industriali, avevano nostalgia dello status quo. Non è forse di famiglia industriale lo scrittore Nesi, che dall’ostinato no al mondo globale delle piccole aziende nostrane ha tratto un bel romanzo vincitore dello Strega?
Lo stesso percorso narrativo a senso unico, esiti diversi identico storyboard, per il Jobs Act di Renzi, avversato dal classico mondo operaio e sindacale, ma che anche tra politici e media di destra o conservatori, che in Europa l’avrebbero sostenuto a gran voce, ha trovato trappole. Perché il partito più forte e radicato nel nostro Paese, il PUSQ, Partito Unificato Status Quo, ha militanti tra le fila di Silvio Berlusconi, nei ribollenti caucuses di Beppe Grillo, ai simposi PD, mobilita editorialisti togati, cattedratici a vita, dibattiti “Non mi interrompa!”, insomma tutti i nemici di ogni cambiamento. Antonio Gramsci amava un proverbio africano, “Meglio avanzare e morire, che restare fermi e morire”; il PUSQ crede, come l’ex Premier Giulio Andreotti, che sia “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Il “tirare a campare” che ci affligge dalla Prima Repubblica ha purtroppo fatto “tirare le cuoia” a vivaci settori della nostra industria, avvizzito scuola e università, svuotato laboratori, mandato all’estero scienziati e tecnici, svenduto brand storici, fatto scappare investitori internazionali, indebolito l’Italia, Paese globale per cultura, con una manifattura che Martin Wolf, decano del Financial Times, ancora ci invidia.
Nespoli capisce che la retorica, il “come” ci raccontiamo le nostre verità, è strategica. Non c’è in lui, per fortuna sarei tentato di dire, nessuna tentazione accademica postmoderna, non crede, come gli ultimi epigoni di Derrida, che “ogni” narrazione abbia identico valore semantico e uguale assunto etico. Sa che “vero” e “falso”, nella stagione durissima delle fake news prodotte industrialmente da Stati, potentati legali o criminali, individui e lobby, portano a esiti opposti. Accanto al lavoro di ricercatore con ADAPT, si è svezzato sui Big Data col gruppo della startup Catchy, dove ho avuto modo di condividere con lui idee e progetti; sa dunque che dati e algoritmi non sono neutrali, sono “opinioni matematiche”, come va sostenendo con foga, pur eccessiva, la matematica Cathy O’Neil. Chi governa gli algoritmi, chi può concedere alle proprie opinioni il potere di comandare su macchine, programmi, dati e sistemi complessi sarà il padrone del tempo.
Per questo il libro di Francesco Nespoli va meditato e discusso. Tratta della decisiva partita nella vita dei nostri figli.
Gianni Riotta
([1]) Studiosi neomarxisti come Luciano Canfora parlano di “capitale” già a partire dal mondo antico, per esempio a proposito dei cantieri navali di Atene, ma si tratta di una, pur efficace dal punto di vista retorico, forzatura polemica.
([2]) A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, 1967.