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Il lungo negoziato tra le maggiori confederazioni dei lavoratori e degli imprenditori dell’industria si è concluso con un modesto minimo comun denominatore. Nel frattempo la Confcommercio ha concluso con i sindacati un solido accordo quadro sulla contrattazione nella grande area del terziario e Federmeccanica ha aperto nel maggiore settore industriale la strada al moderno contratto nazionale, leggero perché sussidiario. Di rinnovamento ha certamente bisogno il nostro sistema delle relazioni collettive di lavoro se è vero che da un lato siamo il Paese più “unionizzato” e, dall’altro, l’economia industrializzata in cui più si sono sedimentati ritardi cronici come la bassa produttività, i bassi salari, i bassi tassi di occupazione. Secondo il premio Nobel Edmund Phelps abbiamo rattrappito la nostra capacità di “innovazione indigena” dalla metà degli anni ’90. Abbiamo quindi bisogno di ritrovare la vitalità dei decenni precedenti anche attraverso lo strumento duttile del contratto nel momento in cui la legge si rivela una fonte di regolazione rigida e lenta mentre il mondo corre grazie alle nuove tecnologie.
Per definizione, il contratto è libero, adattabile, non riconducibile a modelli astratti o a pretese monolitiche. L’egualitarismo è stato concettualmente travolto dalla fine della produzione seriale e dei lavori ripetitivi anche se ancora produce l’effetto paradossale di garantire comparativamente meno potere d’acquisto proprio ai lavoratori delle situazioni più efficienti. D’altronde, ora più di ieri, i modi con cui realizzare la cooperazione tra imprese e lavoratori, e quindi la loro reciproca soddisfazione, possono essere molti. Potrebbe qualcuno sostenere che il nuovo contratto dei metalmeccanici sia meno tutelante di lavoratori rispetto ad altri contratti di settore solo perché rinvia agli accordi aziendali gli incrementi retributivi? La stessa bilateralità disposta da alcuni accordi può avere valide alternative? Per non parlare della opinabilità degli inquadramenti professionali e delle mansioni.
Noi abbiamo sin qui preferito un’idea di società aperta e plurale che sarebbe ora antistorico prendere per le orecchie e condurre forzosamente verso uno schema corporativo. Certo, dobbiamo appoggiare questo pluralismo su una base di principi e di tutele essenziali inderogabili affinché il libero negoziato non dia luogo a fenomeni di concorrenza sleale tra organizzazioni e ad insufficienti tutele dei lavoratori. Se per i principi soccorrono il diritto comunitario e internazionale del lavoro, rimane aperto il nodo del salario considerandone non solo la componente diretta ma anche quella indiretta dei benefici reali. Per evitare la legge occorrerebbe una intesa molto più larga e coinvolgente tutte le organizzazioni minimamente rappresentative sul piano nazionale perché, anche se non uniformi nel territorio, sono pur sempre insediate in molte di quelle nicchie aziendali o di filiera in cui si produrranno sempre più accordi di prossimità. Il pluralismo è una antica caratteristica dei nostri sistemi di rappresentanza politica e sindacale. Sarebbe paradossale sostituirlo ora con un monopolio proprio nel momento in cui il lavoro deve essere valorizzato attraverso strumenti nuovi come il diritto all’apprendimento o l’accesso a prestazioni sociali personalizzabili che si possono variamente declinare. Meglio insomma un po’ di fertile caos che la grigia omologazione. Soprattutto per i lavoratori.
Maurizio Sacconi
Presidente Associazione Amici di Marco Biagi
@MaurizioSacconi