ADAPT - Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Diffusamente si pensa all’insegnamento come ad un percorso, un evento, un trasferimento in grado di offrire vantaggi solo ed esclusivamente a chi lo riceve. L’ho pensato anche io, così a lungo da convincermene pienamente, da studentessa, concentrata a ricevere, a conservare, a tenere stretto ogni insegnamento. Poi è accaduto qualcosa che ha frantumato questa mia radicata convinzione.
Dallo scorso agosto ho scelto di aderire ad un progetto di volontariato, con l’obiettivo di aiutare un gruppo di giovani migranti richiedenti asilo nell’apprendimento della lingua italiana. E ho contato, con meraviglia simile alla stessa che avevo quando ero solo una studentessa, i numerosi doni ricevuti provando ad insegnare qualcosa a qualcuno.
Ho capito il senso di forte gratificazione che si prova osservando i progressi, i passi, l’evoluzione dei propri studenti. Personalmente, non avrei mai immaginato che osservare un ragazzo di 25 anni, totalmente analfabeta, spesso protagonista di storie personali tanto difficili quanto eroiche, mentre impara le vocali e le consonanti di una lingua nuova, potesse coinvolgermi a tal punto da farmi sentire parte di quel processo di apprendimento. Non avrei mai immaginato che avrei imparato dal suo apprendimento qualcosa su “come” insegnare.
Ho poi modificato le modalità del mio approccio verso gli altri. Ho aperto all’altro una porta sul mio vivere in grado di lasciare transitare non solo informazioni, ma anche rispetto, ascolto, osservazione, azioni, tutte tese ad arricchire il momento stesso dell’apprendimento. Mi sono ritrovata a smussare, con lo sforzo di uno scultore, gli angoli del mio carattere che consideravo più spigolosi perché ho visto che una maggiore “leggerezza” mi avrebbe consentito di avvicinare persone che avevano affrontato momenti durissimi e dolori per me nemmeno immaginabili.
Ho poi compreso che l’arte e la perizia di chi insegna nasce dalla diversificazione dei programmi di studio e di insegnamento nel rispetto della singola persona che apprende. Mettere al centro di un processo educativo la persona significa che su di essa occorre impostare la metodologia, il lessico, il ritmo, la prospettiva. Nei pomeriggi trascorsi con ragazzi di venti anni come me, cresciuti in contesti cosi differenti dal mio, ho appreso che esistono soggetti più propensi di altri all’apprendimento, ma che, se sollecitati nel modo giusto e con un metodo che parta dalla comprensione della persona, tutti sono in grado di realizzare piccoli risultati e grandi successi.
Ho inoltre capito il significato di frustrazione, quando il proprio metodo didattico non sembra portare esiti. Ci sono state serate in cui ho dovuto ripetere per ore intere le medesime sillabe, affinché i ragazzi che, prima di allora non si erano nemmeno imbattuti in un cartello stradale, potessero imparare a leggere. Io stimavo i loro risultati con il mio metro di valutazione, tarato sulle mie capacità di apprendimento, sulle condizioni in presenza delle quali io ho imparato ad imparare, sulla mia personale velocità di comprensione.
L’insegnamento mi ha richiesto uno sforzo maggiore, ossia quello di spogliarmi dal metro (erroneo perché personale, individuale e soggettivo) valutativo verso gli altri. Ho dovuto obbligare me stessa a non misurare le prestazioni altrui limitandomi a sviluppare processi ed attendere gli esiti. In momenti come quelli ho lavorato moltissimo sulla mia pazienza e la mia perseveranza ed ho capito che il valore e l’importanza di un progetto educativo e didattico è la sola bussola per misurare ogni comportamento.
Ma, sopra ogni altra cosa, mi sono resa conto che ognuno di questi ragazzi ha lasciato una traccia in me. Qualcuno mi ha raccontato la propria storia e ha voluto condividere con me preoccupazioni personali. Molti giovani stranieri hanno dietro, dentro ed avanti a se stessi montagne davvero difficili da affrontare. Altitudini sconosciute per me e per molti ragazzi della mia età.
Il processo che avevo immaginato di vivere all’inizio di questa esperienza si è rivelato uno scambio, da me verso loro, da ciascuno di loro verso me.
Per molti di loro io sono la giovane ragazza che ha insegnato loro l’italiano. Per me loro sono giovani ragazzi che mi hanno mostrato quanto coraggio sia necessario per crescere e vivere.
Irene Tagliabue
ADAPT Junior Fellow