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Da settimane ormai ci interroghiamo sulle cause che hanno portato al risultato elettorale che ci ha consegnato un’Italia diversa da quella che molti immaginavano. Un tassello in più nel comprendere quella che è spesso è una distanza tra dato macroeconomico e risultati elettorali viene da alcuni dati Istat diffusi ieri. Si tratta di dati relativi agli anni 2015 e 2016 che approfondiscono l’andamento dell’occupazione suddividendolo per qualifica professionale e per propensione al cambiamento digitale. Sappiamo da molte ricerche che sia la qualifica che il livello di competenze digitali è oggi profondamente connesso da un lato al salario e, dall’altro, al rischio o della scomparsa di quella determinata professione o di una profonda mutazione e trasformazione delle sue mansioni. Due elementi che possono facilmente essere messi in relazione con quel sentimento di disagio sociale, di esclusione e di paura per il futuro che potrebbe aver condotto ad un voto anti-sistema.
Secondo le elaborazioni dell’Istat tra il 2015 e il 2016 in Italia il flusso di occupati ha portato a 17mila posizioni lavorative in meno con qualifica alta, mentre ne abbiamo guadagnate 137mila con qualifica media e 170mila con qualifica bassa. Una forte crescita complessiva quindi del dato di flusso ma concentrata interamente nella fascia media e in particolare bassa. L’aumento di quest’ultima (+86mila) è localizzato in particolare nel settore manifatturiero nel quale si sono perse in un anno oltre 68mila posizioni lavorative con alta qualifica e 13mila con media qualifica. Scenario simile nei servizi di mercato, settore nel quale però crescono anche, in misura inferiore alle altre, anche le posizioni ad elevata qualifica. Mentre questo non avviene nel commercio, in cui si nota una diminuzione proprio della bassa qualifica a vantaggio della media e della alta. Una buona parte del calo dell’occupazione ad alta qualifica è data da una diminuzione delle figure dirigenziali, mentre l’aumento è determinato da quelle professioni tecniche che hanno una elevata propensione alla trasformazione digitale, a conferma del fatto che l’occupazione ad alta qualifica viene oggi valorizzata da processi di innovazione delle proprie competenze nella direzione della complementarietà con le nuove tecnologie. Al contrario se analizziamo le posizioni lavorative a bassa qualifica quelle che crescono maggiormente sono proprio quelle nelle quali la componente digitale è assente.
Si tratta di dati che confermano un andamento dell’occupazione italiana divergente rispetto alla tendenza dei maggiori paesi sviluppati. Paesi in cui la gara è quella per posizionarsi ai primi posti delle catene globali del valore, attraverso sviluppo di capitale umano ed investimenti che attirino talenti e la crescita delle competenze dei lavoratori. Chiaramente anche in questi paesi emerge con forza il tema delle disuguaglianze, e non si può pensare che una mano invisibile possa risolvere tutto con la sola spinta degli investimenti, ma il caso italiano sembra avere problemi sia sul fronte alto (in calo) che su quello basso (in crescita). L’obiettivo principale di un paese moderno dovrebbe invece essere quello di generare il più possibile lavoro di qualità, e oggi la qualità passa inevitabilmente dalle competenze e dall’innovazione tecnologica. Ma lo scenario che questi dati ci mostrano non è questo. Lo spostamento delle posizioni lavorative verso i livelli più bassi, e parallelamente meno digitalizzati, ci pone ad un bivio tra i paesi in grado di cavalcare l’onda della trasformazione e quelli che possono esserne spazzati via per adagiarsi su altri lidi in compagnia di quei paesi che abbiamo sempre considerato dietro di noi, ritrovandoceli a fianco. La sfida resta quindi quella di creare valore, valore che oggi passa da una innovazione che abbia al centro la persona, perché l’innovazione che volontariamente distrugge lavoro ha già di per sé una visione a breve termine, senza futuro.
Direttore ADAPT University Press
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2018