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Nonostante la legittima diffidenza di molti verso le ripetute riforme delle tipologie contrattuali, riemerge con il voto la domanda di ulteriori correzioni alle recenti regolazioni. Si ipotizzano penalizzazioni dei contratti a termine e ritorno a maggiori tutele reali in caso di licenziamento.
Sarebbe invero preferibile una agenda per il lavoro concentrata innanzitutto sulla costruzione di ecosistemi permanentemente formativi in tutti i territori, a partire da quelli più deboli, così da alzare il livello delle abilità e delle competenze di tutti i lavoratori in modo da prevenire, oltre che assistere, lo stato di disoccupazione. Operazione non semplice in un Paese in cui il sistema educativo nazionale e gran parte degli enti formativi regionali sono viziati da odiose autoreferenzialità. Solo recentemente si sono avviate prime forme di apprendimento “duale” dopo una lunga fase di ostilità ideologica alla contaminazione della teoria con la pratica.
L’apprendistato dedicato al conseguimento di un titolo di studio spendibile nel mercato del lavoro rimane marginale perché viene penalizzato dagli incentivi indifferenziati e dalla pretesa di adempimenti ostili. Non abbiamo ancora varato un piano straordinario per la alfabetizzazione digitale degli adulti che in Italia, più che altrove, hanno spesso svolto per decenni funzioni ripetitive. Formazione e ricerca sono evidentemente il motore della crescita. Ma dobbiamo volere anche una crescita con occupazione che a sua volta si massimizza non irrigidendo i rapporti di lavoro. Ancor più nella nuova dimensione prodotta dal salto tecnologico, il lavoro acquista valore per cui diventa più difficile assorbire nell’impresa una relazione lavorativa che si è comunque spezzata. La situazione era diversa al tempo delle produzioni seriali. Dobbiamo incoraggiare i rapporti di lavoro tendenzialmente permanenti perché ad essi si associano gli investimenti formativi. Ma questi lavori diventano competitivi con i contratti a termine se non si accentua l’imponderabilità dell’esito di un eventuale contenzioso.
Come diceva Marco Biagi, non esiste incentivo finanziario che possa compensare un disincentivo normativo. Le decontribuzioni non hanno sostituito il persistere di incertezze nel caso di licenziamento perché la nuova norma non è stata esaustiva, si è limitata ai nuovi assunti e la giurisprudenza ne ha poi dato una interpretazione ancor più favorevole alla reintegrazione. Facciamo insomma una moratoria sull’art.18 e concentriamoci piuttosto sui modi con cui potenziare l’apprendistato e rendere effettivo il diritto dei lavoratori al miglioramento delle competenze. Se una “normina” fosse possibile consiglierei di dedicarla a superare il rigido criterio di identificazione della subordinazione contenuto nel job act in quanto la pretesa “etero-organizzazione” caratterizza perfino il rapporto tra committenti e professioni ordinistiche. Nella realtà i lavori dipendenti e indipendenti si avvicinano sempre più per cui ogni separazione formalistica complica la qualificazione del rapporto di lavoro e rattrappisce i lavori. Il contrario di ciò che serve.
Maurizio Sacconi
Presidente Associazione Amici di Marco Biagi
@MaurizioSacconi