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Il diritto di sciopero è un caposaldo di un regime democratico che va rispettato anche quando – succede spesso nei conflitti sindacali – lo si esercita con modalità giustificabili soltanto per la tensione sociale determinata dalla gravità dei problemi in ballo e della esasperazione dei lavoratori. Da sindacalista mi è capitato di accompagnare i lavoratori, nel contesto di vertenze difficilissime, ad occupare delle stazioni ferroviarie. E non ne sono mai stato pentito, perché, in quei casi, riuscii a riprendere in mano la situazione dopo poco più di mezz’ora, mentre, in occasioni precedenti, i lavoratori – da soli – avevano bloccato un’importante linea ferroviaria per diverse ore. Per quelle vicende non ebbi nessun guaio con la giustizia (la stessa cosa riguardò i lavoratori), come invece sarebbe successo se un giorno mi fossi messo in mezzo ai binari da solo. In mancanza della legge ordinaria a cui rimanda l’art. 40 della Costituzione, la dottrina e la giurisprudenza hanno compiuto un grande lavoro per definire la titolarità della proclamazione e dell’esercizio, i limiti e le modalità di esecuzione (per taluni settori in cui, attraverso lo sciopero, si mettono in difficoltà servizi essenziali per la generalità dei cittadini, sono previste, all’inizio degli anni ’90, regole di carattere legislativo che hanno superato e codificato le precedenti forme di autoregolamentazione). Sappiamo, tuttavia, che il conflitto sociale non è mai un pranzo di gala, dove i commensali devono stare attenti a non sbagliare l’uso delle posate per i piatti che vengono serviti.
Le azioni che intervengono durante uno sciopero vengono derubricate: un “picchetto” resta tale anche se potrebbe prefigurare un reato di violenza privata nei confronti dei lavoratori che hanno il diritto di non prendere parte all’astensione del lavoro. Per non parlare, appunto, del blocco delle vie di comunicazione o di quant’altro. Un altro aspetto controverso chiama in causa la facoltà del datore di non accettare la prestazione in presenza di astensioni (scioperi a singhiozzo o a scacchiera, comunemente definiti “articolati”) che danneggiano la produzione e l’organizzazione del lavoro, rompendo quella proporzionalità teorica che dovrebbe esserci – sulla carta – tra le ore di lavoro e di retribuzione perdute dai lavoratori e il venir meno del regolare andamento produttivo dell’impresa.
Ci fermiamo qui perché lo scopo di questo scritto non è quello di dissertare sul diritto di sciopero all’interno di un bollettino tanto autorevole (sarebbe come portare vasi a Samo e nottole ad Atene: si diceva una volta), ma di sottolineare che lo sciopero, per la sua sacralità, non consente – almeno sul piano etico – abusi, strumentalizzazioni, sviamenti. La casistica sarebbe molto ricca, soprattutto per l’azione di organizzazioni sindacali minoritarie che abusano della facoltà di dichiarare sciopero allo scopo di dare una copertura giuridica a forme di vero e proprio ingiustificato assenteismo (ad esempio, nell’occasione di un’importante partita di calcio). Ricordiamo tutti i disagi provocati – in particolare nella Capitale – dagli scioperi nei trasporti pubblici, effettuati più o meno una volta al mese, di venerdì, per motivi talmente generici ed assurdi (contro una privatizzazione che nessuno aveva in mente) da apparire in tutta evidenza degli attentati al vivere civile. Tuttavia, dal momento che, in quelle occasioni, vengono formalmente rispettate le modalità di esercizio, la cittadinanza è costretta a subire.
Poi destano sospetto gli scioperi dichiarati in mezzo ai c.d. ponti, i quali nulla hanno a che fare con quelli di cui parla Papa Francesco, ma costituiscono un’occasione di vacanza per milioni di italiani che congiungono tra loro alcune festività vicine con giorni di ferie per trascorrere, in famiglia e in qualche luogo ameno, quella quarta settimana del mese che, secondo il racconto dei talk show, non sono più in grado di gestire perché sono finiti i soldi degli stipendi e delle pensioni. Diciamoci la verità: suscitano qualche dubbio gli scioperi piazzati, come è avvenuto quest’anno, in un periodo favorevole ai “ponti”. Il bello è che a privare gli studenti di giornate utili alla loro formazione non ci si è messo soltanto un sedicente sindacato dei precari che ha proclamato uno sciopero per il 2 e il 3 maggio – a sostegno di rivendicazioni legittime ma discutibili – allo scopo di favorire il prolungamento del “ponte” dal 30 aprile in avanti. Anche le Regioni hanno fatto la loro parte. Sono in buon numero quelle che hanno deciso la chiusura delle scuole il 30 aprile. Ma perché prendersela? Sia gli insegnanti che gli studenti “tengono famiglia”.
La scansione delle festività di fine aprile e di inizio maggio di solito consente – con un po’ di aggiustamenti come qualche giorno di ferie ben collocato nel calendario o addirittura grazie ad uno sciopero – di avere due settimane di tempo libero (anzi “liberato” perché “lavorare stanca”) da utilizzare – in tutto o in parte – per qualche giornata di vacanza. A tutto vantaggio del turismo, naturalmente. Se poi si salta qualche lezione, pazienza. Tanto le lacune nell’uso dei congiuntivi non recheranno alcun pregiudizio a quei ragazzi che aspirano a diventare, da adulti, presidenti del Consiglio. In occasioni come queste, tuttavia, non esitano a farsi riconoscere anche organizzazioni sindacali paludate e ricche di quarti di nobiltà. Come le federazioni di categoria delle Confederazioni storiche. Al grido “La festa non si vende” i sindacati di categoria Filcams, Fisascat e Uiltucs hanno lanciato una campagna contro la liberalizzazione delle aperture commerciali nei giorni festivi previsti dal decreto Salva Italia del governo Monti e proclamato uno sciopero – regolarmente ignorato e fallito – per l’intero turno dei giorni 25 aprile e 1° maggio. Tant’è. Mettiamo pure che si trattasse di feste di particolare significato; non si comprende, però, per quale motivo spettasse soltanto ai lavoratori del commercio a “non vendere la festa”. Anche se in quei giorni i negozi fossero rimasti chiusi, nel medesimo settore, per esempio, sarebbero restate aperte le strutture alberghiere. Per non parlare di tutte le attività che continuano anche durante tutte le festività (e non sempre in forma ridotta): i trasporti pubblici e privati, le ferrovie, gli aeroporti, gli impianti a ciclo continuo, gli ospedali, le forze dell’ordine e quant’altro. Interessante è seguire il dibattito.
Filcams, Fisascat e Uiltucs hanno ribadito che la liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali “non ha sortito l’effetto sperato sugli aumenti di fatturato delle imprese”. Pronta la replica delle associazioni imprenditoriali. Federdistribuzione ha difeso la linea delle aperture in favore delle abitudini di acquisto dei consumatori che chiedono “di poter fare acquisti nei negozi in una fascia sempre più ampia di ore e di giorni, in uno scenario di imponente esplosione dell’e-commerce, una vetrina aperta 7 giorni su 7 e 24 ore su 24”. Ed è proprio all’e-commerce che il presidente di Confimprese, Mario Resca, si è voluto riferire sostenendo che “chiudere i negozi sarebbe un danno enorme ma soprattutto un regalo ad Amazon”.
Queste ultime considerazioni stanno a dimostrare che sia i sindacati sia le associazioni imprenditoriali stanno ballando sul Titanic. E non se ne rendono conto. I primi difendono un’organizzazione del lavoro che non esiste più e restano attaccati al loro “piccolo mondo antico” e all’uso “patetico” di uno sciopero destinato a fallire (o ad essere usato per allungare “il ponte”). I secondi tentano di ritardare, con vecchi metodi (l’apertura ad oltranza dei negozi), l’arrivo del mondo che verrà.
Membro del Comitato scientifico ADAPT