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Con l’avvio di una nuova Legislatura, che preannuncia importanti novità sulle tematiche lavoristiche come per esempio il reddito di cittadinanza, e nel pieno del dibattito, rilanciato anche dal Sole 24 Ore, sulle soluzioni tecniche e normative per governare la nuova grande trasformazione del lavoro, non è esercizio di stile interrogarsi sulla funzione storica del diritto del lavoro. Un diritto che nasce dall’incontro di tre ideologie: quella riformista, quella cattolica, quella liberale. Ideologie da taluno definite “deboli” almeno se messe a confronto con teorie totalizzanti come il marxismo o l’hegelismo.
È questa la suggestiva tesi avanzata dieci anni fa da Mario Napoli ([1]), in un contributo raccolto da Patrizia Tullini in un prezioso volume multidisciplinare di riflessione sulla identità e il valore del lavoro. Per Mario Napoli, infatti, mentre l’ideologia totalitaria distrugge la persona e la sua dignità, la filosofia del diritto del lavoro ne conserva la libertà e integrità. La debolezza di cui sopra sta dunque a significare un modo di intendere l’uomo e la realtà tenendo a mente la concretezza del vivere quotidiano ed evitando visioni futuristiche o ideologiche di una salvezza escatologica (tra il misticismo e il marxismo).
“Debole” è quindi la filosofia che non si propone di “spiegare” la totalità del mondo, ma di andare a interrogarsi su un fenomeno specifico, senza aver la pretesa di esaurirlo. Quest’assenza di una pretesa esaustiva è ciò che, di fatto, permette il dialogo – e, prima ancora, l’ascolto dell’altro.
Una filosofia del quotidiano, quindi, quella del lavoro, che ha al centro non il concetto astratto e definitorio di lavoro, ma la persona che lavora. Questo cambio di prospettiva permette di passar dal piano della riflessione puramente teoretica (tipica delle ideologie totalitarie sopra richiamate) al piano della prassi intelligente, dell’azione consapevole tipica della vita di ogni giorno.
La persona che lavora è anche la persona che vive, che ha una famiglia, degli affetti, delle speranze e delle paure. Contro ogni pretesa economicista o giuridica, Napoli vede quindi, dietro la parola lavoro, prima di tutto la persona, il suo impegno, il suo agire.
Posta l’esistenza della tecnica e dell’organizzazione del lavoro tipica di un determinato periodo come un a-priori non problematizzato ma accettato nel suo positivo esserci, il diritto del lavoro predispone “grandi reti di protezione”: insiemi di regole volte a tutelare e promuovere la persona al lavoro.
Mario Napoli ne elenca quattro: professionalità, responsabilità, formazione continua e sicurezza. Se l’esistenza della macchina è un presupposto innegabile della produzione, ciò che, in ogni caso, non può venire meno, è l’agire della persona.
L’uomo moderno è immerso in un contesto produttivo e lavorativo, ma non si esaurisce in esso, lo trascende: la professionalità, in questo senso, è proprio la qualità tipicamente umana di essere persona al lavoro, cioè di esprimere sé stesso nell’azione che è chiamato a compiere, per quanto estrinseca a lui possa sembrare o essere. La professionalità è, pertanto, irriducibile: è uno stile d’azione, un modo unico con cui, ognuno di noi, affronta il proprio compito. L’immanenza del contesto storico non riduce l’uomo a ingranaggio dello spirito del tempo, né lo esalta verso rivoluzioni escatologiche: la sua trascendenza concreta fa sì che egli sia, ovunque sia, persona. Nel lavoro ogni uomo diventa un po’ più uomo, cioè sé stesso: il diritto del lavoro, con questo sguardo e questo ideale, è lì al suo fianco nel creare le sopracitate reti di protezione.
Lo stesso contratto di lavoro, come definito nel codice civile, porta con sé questa visione personalistica, esaltando la responsabilità individuale. Il contratto, regolato e tutelato dal diritto del lavoro, è prima di tutto rapporto, relazione di responsabilità tra persone e non riducibile a semplice scambio di prestazioni (lavorativa ed economica).
Certo, si lavora (anche) per guadagnare; certo, ci sono doveri (e diritti) ben espliciti, ma l’azione dell’uomo al lavoro non è riducibile – anche in questo caso – al corrispondere ad un obbligo.
Le grandi teorie totalitarie che abbiamo sopra citato, ragionano sul senso del lavoro, e non sulla persona che lavora. Così facendo, rimanendo su un piano esclusivamente concettuale, separano lavoro da non lavoro, spesso ponendo l’unica possibilità di felicità e libertà per l’uomo in quest’ultimo elemento: solo allontanandosi dal lavoro si può essere felici, e quindi compiuti, sé stessi. Oppure, al contrario, esaltano il lavoro nella sua funzione rivoluzionaria come mezzo per una trasformazione totale della società, come terreno di lotta e di scontro di forze epocali.
Sebbene sia innegabile l’ancoraggio alla realtà che hanno queste teorie, inciampano già nei loro primi passi, volgendo il loro sguardo altrove rispetto alla persona all’opera: il quotidiano è declassato a favore di una visione globale, si ricerca una soluzione definitiva ed esaustiva in grado di ricomprendere in sé non solo l’uomo, ma tutta la realtà.
L’umiltà del diritto del lavoro sta tutta nel suo sguardo, concentrato alla prassi del lavoratore: non si chiede il perché profondo di una determinata struttura economica e sociale (compito di altre dottrine) ma, posta la quale, si interroga su come l’uomo ne può rimanere il principale attore, in un’ottica di crescita e sviluppo personale e sociale.
Le grandi teorie, così come alcune recenti proposte politiche per fronteggiare la carenza di lavoro, perdono di vista un altro aspetto fondamentale dell’attività lavorativa: non si lavora solo per sé. Come dicevamo prima, si lavora (anche) per guadagnare. L’art. 36 della Costituzione italiana ci ricorda che il guadagno si inserisce in una trama di rapporti non solo economici ma anche sociali e familiari. Lavorando, la persona si rapporta con gli altri, anche indirettamente, anche inconsapevolmente: il lavoro, alla sua radice, è sociale e intersoggettivo. Anche un piccolo reddito compone il PIL, anche un stipendio contenuto è usato anche per altri. “Il lavoro è espressione dell’essere per l’altro”, dice Mario Napoli.
La dialettica di immanenza e trascendenza si esplica anche in questa dinamica intersoggettiva e plurale: l’uomo che lavora vive con altri, lavora con altri, per altri. Questa dimensione plurale permette al lavoro di non ridursi ad azione meccanica o autoconcludente, e sviluppa nella persona una responsabilità e un’etica sociale e pubblica.
Il diritto del lavoro non vuole imporre un insieme di norme morali: come abbiamo sopra ricordato, non si pone come teoria esplicativa dell’essere e dell’uomo, ma accompagna la persona nel suo quotidiano. L’etica che porta con sé non si incarna quindi in un sistema di azioni codificato, ma piuttosto ispira una prassi, permette uno sguardo più ampio, tiene la persona al centro di un’ontologia che fonda il diritto stesso.
Può essere che quella sopra sintetizzata sia una visione minoritaria nell’ambito delle teorie sulle funzioni del lavoro e del diritto del lavoro. Eppure in questa visione si trova una ricchezza di visione e di relative azioni che potrebbe aiutare a impostare il dibattito sul lavoro nella nuova Legislatura, superando un confronto polarizzato dalle leggi e dai numeri del lavoro, che poco o nulla ha contribuito in questo ultimo decennio a cogliere la sostanza delle trasformazioni in atto e a indicare la strada da intraprendere.
[1] Il presente articolo approfondisce alcuni spunti offerti dal saggio di M. Napoli, La filosofia del diritto del lavoro, in P. Tullini, Il lavoro. Valore, significato, identità, regole, 2009
Adapt Junior Fellow