Politically(in)correct – Quando una tabella viene accusata di essersi intrufolata in un decreto

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Se non ci fossero delle gravissime ripercussioni istituzionali, il caso della tabella che si intrufola nel decreto (in)degnità all’insaputa del ministro Luigi Di Maio sarebbe un’ulteriore conferma di quanto asseriva il grande Albert Einstein: due cose sono infinite, lo spazio e la stupidità umana, ma sul primo aveva qualche dubbio (e non sulla seconda). Di gaffe il titolare del dicastero del Lavoro (in unione personale con lo Sviluppo economico) non ha collezionate parecchie. Dando prova di un candore preoccupante (visto il ruolo che ricopre) si è stupito quando il testo del suo decreto (scopiazzato qua e là, come è stato ampiamente dimostrato) è dovuto passare al vaglio della c.d. bollinatura: una procedura ordinaria per ogni norma di spesa della quale vanno accertati sia l’entità dei costi sia l’adeguatezza delle coperture finanziarie. E non si tratta di una complicazione burocratica, di un ostacolo artificioso attraverso il quale le lobby pretendono di condizionare il cammino della “buona politica” verso radiosi obiettivi di cambiamento, ma di un preciso (e sacrosanto) adempimento di rango costituzionale, in assenza del quale il presidente della Repubblica non può promulgare le leggi.

 

Ma il new look di chi ci governa non si limita a credere che basti annunciare le proprie intenzioni su facebook per vederle realizzate. I provvedimenti sottoposti all’iter parlamentare di approvazione devono essere accompagnati da due relazioni: una illustrativa, l’altra tecnica. Quest’ultima è molto importante perché è chiamata a dare conto degli effetti che quelle norme produrranno. Chi è tenuto a redigere le relazioni tecniche? Gli uffici dei ministeri proponenti, con il contributo degli enti pubblici (l’Inps in particolare), sotto il coordinamento del ministro dell’Economia (e quindi della Rgs). Ovviamente, i tecnici non sono degli indovini; le loro previsioni sono discutibili, ma occorrono degli argomenti altrettanto fondati di quelli usati nella relazione. In ogni caso è doveroso che questo documento presenti un carattere “terziario” ed oggettivo, il più possibile rispettoso della realtà dei fatti. È un approccio indispensabile per consentire ai parlamentari di valutare il provvedimento con la consapevolezza delle conseguenze ipotizzabili.

 

Il casus belli riguarda una tabella contenuta nella relazione tecnica a proposito della stretta sui contratti a termine la cui durata viene ridotta da 36 a 24 mesi, mentre per i rinnovi dopo i primi 12 mesi vengono reintrodotte specifiche e rigorose causali (accertabili quindi in giudizio e promotrici di un contenzioso a posteriori); le possibili proroghe passano da 5 a 4; viene aumentato l’importo dei contributi a carico delle aziende dopo la prima proroga. È proprio sulla stretta dei contratti a termine che, nella relazione, viene stimato un impatto negativo sull’occupazione. In base ai dati della tabella birichina, su circa 2 milioni di contratti a termine attivati ogni anno, il 4 per cento supera i 24 mesi e quindi si pone di per sè in contrasto con le nuove norme. Ne deriva che, secondo la relazione tecnica, di questi 80mila rapporti oltre i 24 mesi, il 10%, (vale a dire 8mila) saranno perduti ogni anno (si veda la tabella) per non parlare delle minori entrate contributive e fiscali.

 

Di Maio non smentisce la consueta sicumera. Per lui non c’è alcun bisogno di dimostrare il contrario: “C’è scritto (nel decreto, ndr) che farà perdere 8mila posti di lavoro in un anno. Quel numero, che per me non ha alcuna validità, è apparso la notte prima che il dl venisse inviato al Quirinale. Non è un numero messo dai miei ministeri o altri ministri”. La verità è che “questo decreto dignità ha contro lobby di tutti i tipi. Il mio sospetto è che questo numero sia stato un modo per cominciare a indebolire questo decreto e fare un po’ di caciara. Non mi spaventa», assicura. La dichiarazione di Di Maio è affidata, come di consueto, a facebook. Il riferimento – quasi esplicito – è rivolto al Mef e alla Ragioneria. Tanto che, con tono intimidatorio, il ministro minaccia l’uso dello spoil system per fare pulizia nella Rgs. È gravissimo che un ministro della Repubblica immagini addirittura una congiura ai danni del provvedimento che dovrebbe costituire il suo biglietto da visita al punto da accusare uno dei dipartimenti più qualificati dell’amministrazione pubblica come la Ragioneria generale dello Stato.

 

L’obiettivo è quello di sostituire Daniele Franco e mettere al suo posto una persona di fiducia di quegli scalzacani che gestiscono le politiche economiche e finanziarie del governo giallo-verde. La linea di condotta è l’intimidazione. Roberto Saviano critica le battaglie navali di Matteo Salvini e lui minaccia pubblicamente di privarlo della scorta; Tito Boeri – dati alla mano – svolge delle considerazioni non gradite al ministro di Polizia, il quale non esita a dichiarare che arriverà il momento della resa dei conti. Il ministero della Difesa fa notare che, al Viminale, si occupano di questioni di sua pertinenza, ma viene ridicolizzato in diretta dal ministro. Un sottosegretario, in Aula, minaccia di querelare un parlamentare dell’opposizione che lo aveva criticato. Poi Di Maio, il minore dei fratelli De Rege, ha superato il maggiore, immaginando addirittura una spy story ai suoi danni.

 

Sono manifestazioni che denotano un disprezzo delle regole e dei ruoli istituzionali, in nome di una superiore morale rivoluzionaria (?) legibus soluta. In verità, a Luigi Di Maio non passa neppure per l’anticamera del cervello (Dio lo riposi!) che le previsioni contenute nella tabella incriminata siano corrette. E che le imprese, piuttosto che assumere con le regole che lui vuole imporre, preferiranno non farlo. E che non esiste la possibilità di abolire le precarietà per legge, imponendo ai datori di avvalersi di rapporti contrattuali a tempo indeterminato. In sostanza, un pregiudizio di carattere ideologico diventa una verità rivelata.

 

Ma di prove di arroganza se ne vedono tutti i giorni da parte degli esponenti di questo esecutivo e dei loro corifei. Prendiamo il caso dell’abolizione dei vitalizi degli ex deputati. Non intendiamo entrare nel merito, ma soltanto far notare un aspetto ripugnante. Si sta cercando di intimidire gli interessati a non fare ricorso, sottoponendo quelli che lo faranno a vere e proprie liste di proscrizione, additandoli al livore dell’opinione pubblica (“hanno osato fare ricorso. Che vergogna!”). Dimenticando il principio ribadito dall’24 della Carta fondamentale: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Oppure c’è un sedicente tribunale dello Stato etico che ha preso il posto del giudice naturale?

 

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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