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L’eterno ritorno dell’uguale. Potrebbe sembrare eccessivo scomodare il filosofo per analizzare l’attuale dibattito sul mercato del lavoro in Italia, ma essendo da alcuni giorni tornata al centro la questione della cassa integrazione, dopo mesi di discussione sui contratti a termine e sulla precarietà, il pensiero va in questa direzione.
Un dibattito che nasce da una situazione concreta e urgente, che vede quasi 200mila lavoratori, soprattutto occupati in imprese metalmeccaniche, a rischio disoccupazione qualora venisse meno la cassa integrazione straordinaria entro la fine dell’anno. Rischio concreto o meglio certezza vista le novità introdotte dal Jobs Act che ne hanno ridotto la durata massima. Il tema della cassa integrazione richiama quello più ampio degli ammortizzatori sociali e quello più ampio ancora delle politiche del lavoro in un mercato in profondo cambiamento. Infatti è difficile negare che la situazione attuale sia figlia del tentativo di applicare i principi della flexicurity anche nel nostro Paese, concentrandosi però soprattutto sul fronte flessibilità piuttosto che su quello della sicurezza. Risulta chiaro infatti come un intervento sulla flessibilità, in questo caso sulla riduzione della durata massima degli ammortizzatori sociali, sia più semplice da attuare rispetto alla complessa realizzazione di un sistema di ricollocazione dei lavoratori che parta da una riqualificazione professionale che consente di renderli occupabili in altre imprese. Aver ridotto le tutele, pur con tutte le criticità del vecchio sistema degli ammortizzatori sociali, senza averne costruite di nuove e moderne, ha creato una situazione di stallo e rischio particolarmente difficile da affrontare. Se poi, oltre a questo, sono mancate serie politiche per l’industria (con l’eccezione del piano Impresa 4.0 che avrà però effetti nel medio-lungo termine), è ancor più chiaro che è difficile che le imprese in difficoltà si riprendano e che vi siano molte imprese in grado di assorbire la disoccupazione.
Per questi motivi occorre oggi non cadere nella tentazione di ripristinare un vecchio modello convinti che il ritorno al passato possa essere la soluzione. È evidente che c’è una dimensione emergenziale del fenomeno per la quale è necessario intervenire temporaneamente, anche prolungando strumenti che andrebbero ad esaurirsi. Ma è oltremodo evidente che la sfida del momento attuale è quella che situazioni di questo genere si riducano sempre di più.
E allora diventano due gli elementi fondamentali. Da un lato non interrompere, e anzi potenziale, quelle politiche per l’industria che siano in grado di sostenere le imprese nella corsa all’innovazione e all’ampiamento dei mercati di riferimento, anche attraverso seri processi di riorganizzazione che non siano solo una scusa per rimanere in uno stato vegetativo permanente. Dall’altro rendersi conto che nel mercato del lavoro di oggi, e ancor di più in quello che ci aspetta, le transizioni occupazionali non possono più essere considerate come la conseguenza di una crisi o di una chiusura aziendale. Saranno invece molto più presenti e ordinarie all’interno di carriere discontinue fatte di numerosi cambiamenti di natura contrattuale, occupazionale e professionale. Per questo un approccio emergenziale non può più essere adottato e la semplice reintroduzione dei vecchi ammortizzatori sociali non è altro che un evitare di affrontare il problema. La sfida resta sempre quella di ripensare il tessuto produttivo e il mercato del lavoro per poter ritornare ad essere un Paese competitivo e allo stesso tempo giusto, nel quale il dualismo tra imprese non diventi, come spesso accade, origine di disuguaglianza per i lavoratori stessi.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt
Direttore ADAPT University Press
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
*pubblicato anche su Avvenire, 27 settembre 2018