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Nel contratto di governo, venivano affidate ai centri per l’impiego delle funzioni importanti. Il loro compito era quello di attivare i percettori del reddito di cittadinanza con politiche attive e formative che consentissero di presentare, una dopo l’altra in un arco temporale di due anni, tre offerte di lavoro, rifiutate le quali il soggetto sarebbe decaduto dal diritto. “Tale percorso – secondo il contratto – prevede un investimento di 2 miliardi di euro per la riorganizzazione e il potenziamento dei centri per l’impiego che fungeranno da catalizzatore e riconversione lavorativa dei lavoratori che si trovano momentaneamente in stato di disoccupazione. La pianificazione di un potenziamento generale di tutti i centri per l’impiego sul territorio nazionale – proseguiva il documento – è finalizzata a: incrementare la presenza, efficienza e qualità dei servizi per l’impiego; identificare e definire idonei standard di prestazione dei servizi da erogare; adeguare i livelli formativi del personale operante”.
Prima di procedere oltre, il testo consente di sottolineare la confusione che regna nella maggioranza di governo sui profili e le condizioni dei destinatari della prestazione. Il reddito di cittadinanza è uno strumento che serve a combattere la povertà, dapprima assicurando un reddito modulato secondo i carichi famigliari, poi mediante un inserimento guidato nel mercato del lavoro? Oppure è un provvedimento che svolge la funzione della Naspi ed è rivolto solo ai disoccupati ovvero a coloro che hanno perduto involontariamente un posto di lavoro? Le parole esprimono dei concetti distinti: il disoccupato versa in una condizione differente da quella dell’inoccupato e come tale non può essere individuato come il lavoratore che versa momentaneamente in stato di disoccupazione e che deve essere reinserito nel mercato del lavoro.
Comunque andrà, i demiurghi dell’operazione saranno i centri per l’impiego, le strutture di mano pubblica chiamati ad intermediare la domanda con l’offerta di lavoro. In quale modo e con quali strategie e procedure resta un mistero. Tanto più adesso che il Def ha dimezzato la dote ad un solo miliardo (il che è positivo perché si riduce l’ammontare delle risorse candidate a non risolvere nulla).
Assegnare questo nuovo ruolo soltanto ai centri per l’impiego è un’ulteriore dimostrazione della (sub)cultura statalista di una delle componenti della maggioranza (il M5S appunto). Non si comprende perché dovrebbero essere escluse le agenzie del lavoro. In Italia operano circa 80 agenzie per il Lavoro, autorizzate dal Ministero competente) e iscritte nell’apposito Albo tenuto dall’Anpal. Le 47 agenzie aderenti ad Assolavoro – si legge in una nota presentata durante un’audizione alla Camera – rappresentano circa l’85% del settore. In Italia occupano direttamente circa 10.500 addetti, di cui il 75% donne, l’80% al di sotto dei 30 anni e al 95% laureati. Attraverso l’attività di ricerca e selezione svolta dalle agenzie per il lavoro in un anno oltre 50mila persone vengono assunte direttamente dalle aziende clienti. I lavoratori in somministrazione in Italia sono stati in media 439mila nel 2017 (media annuale su base trimestrale; 700mila le persone che hanno avuto almeno una occasione di lavoro in somministrazione nel corso dell’anno) a fronte di 2,7 milioni di lavoratori con contratto a termine (dato Inps). L’incidenza del lavoro in somministrazione nel nostro Paese è ancora sotto la media europea, attestandosi intorno all’1.5%, contro l’1,9% ed è inferiore rispetto ad altri Paesi come la Germania dove tale percentuale è del 2,4%. Particolarmente rilevante è il costante incremento dei lavoratori a tempo indeterminato, pari a oltre 37mila nel 2017.
Nonostante un potenziale di professionalità e di capacità operativa visibilmente superiore a quello dei centri per l’impiego e a risultati apprezzabili sul terreno dell’occupazione, se non ci fosse la somministrazione le agenzie dovrebbero chiudere bottega, perché anche per loro non è facile effettuare politiche di ricollocazione. Le sperimentazioni organizzate dall’Anpal riguardanti l’assegno di ricollocazione non hanno avuto successo in primo luogo perché i lavoratori disoccupati hanno preferito portare a conclusione l’intervento della Naspi piuttosto che infilarsi in un piano di politiche attive.
Anche quello che ad avviso di chi scrive merita di essere considerato uno dei programmi di maggior successo (o se si vuole di minore insuccesso) come Garanzia Giovani, è lì a provare quanto siano complessi i percorsi di politica attiva. Da quando è entrato in vigore (il 1° maggio 2014) sono stati quasi 1,4 milioni i giovani registrati, al netto di tutte le cancellazioni di ufficio. Rispetto ai registrati, i presi in carico da parte dei servizi competenti sono pari al 77,7%. L’80,6% dei presi in carico sono giovani con una maggiore difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro (profiling medio-alto e alto). Il numero di utenti che è stato preso in carico dai centri per l’impiego (Cpi) è nettamente più elevato in confronto a quanto registrato per le agenzie per il lavoro (Apl), rispettivamente 78,7% e 21,3%, ma nelle Regioni del Nord-Ovest questa distribuzione si inverte: il 21,5% dei giovani è stato preso in carico dai centri per l’impiego contro il 78,5% delle agenzie per il lavoro. Per quanto riguarda l’attuazione, il 55,6% dei giovani presi in carico dai servizi è stato avviato a un intervento di politica attiva. Il 58,7% delle azioni è rappresentato dal tirocinio extra-curriculare. Seguono gli incentivi occupazionali con il 24,1%. La formazione è il terzo percorso più diffuso (12,7%). Rispetto a chi ha completato l’intervento di politica attiva, sono oltre 283 mila i giovani occupati al 31 luglio 2018, cioè il 52,3%. Il tasso di inserimento occupazionale rilevato a 1, 3, 6 mesi dalla conclusione dell’intervento in Garanzia Giovani passa dal 43,3% (1 mese) al 52% (6 mesi). Il primo ingresso nel mercato del lavoro entro il mese successivo alla conclusione del percorso riguarda il 43,6% dei giovani, percentuale che sale al 59,1% se si guarda ad un lasso temporale più lungo (entro 6 mesi). Fino a qui il Rapporto numero 6 del 2018 del Ministero del Lavoro.
Ma almeno si è trattato di un impegno serio e concreto, privo degli aspetti surreali che si ipotizzano per il reddito di cittadinanza come l’obbligo di acquistare prodotti italiani e “moralmente” ineccepibili. Ma soprattutto somiglia ad una grida manzoniana la pena di sei anni di reclusione per i c.d. furbetti: una sanzione più grave e pesante di quelle previste – solo per fare alcuni esempi – per l’omicidio colposo (anche stradale), la truffa aggravata, il furto aggravato, la rapina. God bless Italy.
Membro del Comitato scientifico ADAPT