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Con la Legge di Bilancio 2018 è stato istituito, presso il Ministero del Lavoro, un fondo di 20 milioni di euro per ciascuno degli anni del triennio 2018-2020, al fine di sostenere il ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare. Tale fondo sarà destinato “alla copertura finanziaria di interventi legislativi finalizzati al riconoscimento del valore sociale ed economico dell’attività di cura non professionale del caregiver familiare”.
La legge fa riferimento a una attività di tipo non professionale. Nel suo campo di applicazione viene infatti considerato solo il caregiver familiare come definito all’art. 1 comma 255, della legge n. 205 del 2017 come “la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell’art. 3 co. 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n. 18″. Si tratta indubbiamente di un passo in avanti importante per la gestione di un fenomeno diffuso e sino a oggi senza alcun riconoscimento normativo. Vero tuttavia che, ben oltre la sfera del volontariato e della buona volontà dei familiari, l’esplosione delle malattie e delle disabilità dovrebbe spingere il legislatore anche a riconoscere e valorizzare figure professionali che potrebbero occuparsi con maggiore competenza e qualità della assistenza al malato.
L’esigenza di una previsione di questo tipo nasce, come è facile intuire, non solo da un costante e progressivo invecchiamento della popolazione, ma anche dall’aumento del numero di soggetti affetti da patologie croniche e, di conseguenza, di coloro che, chiamati a svolgere attività di assistenza nei loro confronti, si trovano a ricoprire il ruolo di caregiver.
A tal proposito, analizzando un report dell’Istat datato 2017, si evince che l’età media della popolazione nel Paese passerà dai 44,7 anni attuali agli oltre 50 del 2065 e il picco di invecchiamento colpirà l’Italia nel periodo 2045-2050, quando gli ultrasessantacinquenni arriveranno ad essere quasi il 34% della popolazione. (ISTAT, Il futuro demografico del paese – Previsioni regionali della popolazione residente al 2065, Report Istat del 26 aprile 2017)
Per quanto poi riguarda i soggetti affetti da patologie croniche, l’Annuario Statistico Italiano 2017 dell’Istat sottolinea che il 39,1% dei residenti in Italia ha dichiarato di essere affetto da almeno una delle principali patologie croniche rilevate, dato che risulta in aumento dello 0,8% rispetto al 2015.
Soffermandoci poi nello specifico sulla figura dei curanti, il Rapporto Annuale 2018 dell’Istat rileva che, nel periodo 1998-2016, si è verificato un aumento della quota dei caregiver di poco più di dieci punti percentuali, passando dal 22,8% al 33,1%.
Ma ciò che è davvero interessante osservare è che questi, ancora una volta, sono definiti come soggetti che hanno prestato un aiuto gratuito nei confronti di un individuo bisognoso di cure, durante le quattro settimane antecedenti all’intervista, non considerando alcuna forma di prestazione di aiuto di natura professionale.
Appare quindi chiaro, alla luce dell’analisi condotta, che la tendenza sia quella di considerare solo ed esclusivamente la figura del caregiver familiare, come soggetto demandato alla cura e all’assistenza di chi è affetto da una patologia cronica o ha, per altre ragioni, perso autosufficienza. Mentre vi è una diffusa resistenza a prendere in considerazione il ruolo che, in un contesto simile, potrebbero occupare le figure professionali a ciò adibite.
A tal proposito, ad oggi, non esiste ancora un mercato del lavoro “moderno” per quanto riguarda l’assistenza professionale ai malati e sia la Legge di Bilancio che le indagini svolte dall’Istat sembrano continuare in questa direzione.
C’è, tuttavia, da interrogarsi sulla sostenibilità, nel medio-lungo periodo, di un sistema interamente basato sul volontariato, anche alla luce della crescente aspettativa di vita e della sempre maggiore diffusione di malattie che un tempo risultavano quasi sempre mortali -si pensi alle patologie oncologiche- e che oggi, al contrario, possono trasformarsi in croniche.
Con ogni probabilità, un apparato come quello attuale, dove per il malato il sostegno proviene quasi sempre dall’interno del nucleo familiare, non è più sufficiente a soddisfare le esigenze di una società in così veloce mutamento. Alla luce di ciò è ad oggi necessaria una riforma del settore dell’assistenza ai malati che permetta un inserimento significativo anche di figure professionali, adeguatamente formate e preparate ad assistere malati cronici e grandi anziani che, temporaneamente o in modo permanente, hanno perso la propria indipendenza ed autonomia.
A scanso di equivoci, l’obiettivo ultimo di queste riflessioni non è quello di creare una contrapposizione netta tra la figura del caregiver familiare e quello professionale. Al contrario, si deve ambire a fornire ai malati e alle famiglie che si trovano in questa difficile posizione una possibilità di scelta “legale”, attraverso l’utilizzo schemi contrattuali idonei, senza dover operare un ripiego sul lavoro sommerso.
ADAPT Junior Fellow