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Su I Blog del Fatto del 26 ottobre 2018 Francesco Pastore e Francesco Giubileo hanno pubblicato l’articolo intitolato “Centri per l’impiego, sarà rivoluzione. Se il sistema è tutto digitale, potenziarli non servirà”.
Si tratta di un’agiografia ottimistica del piano di ristrutturazione dei servizi per il lavoro proposto al Ministro del lavoro dal Prof. Mimmo Parisi e basato sull’esperienza del Mississippi, secondo la quale visto che tutto l’iter di gestione del reddito di cittadinanza sarà digitalizzato, a questo punto non servirà maggior personale nei centri per l’impiego e sarà, anzi, possibile ridurli dagli attuali 532, ad un centinaio di hub ove si erogheranno servizi “specialistici”.
La teoria, lo si afferma subito, è suggestiva ed affascinante, ma non convince. Non è la prima volta che gli Autori esprimono la ferma convinzione che con l’informatica si risolva tutto. E non è, questa, la prima volta che chi scrive sommessamente evidenzia quali sono i problemi connessi ad una fede assoluta da positivismo ottocentesco sulle risorse della tecnologia sulle magiche proprietà dei siti e delle app. Per quanto sia brutto autocitarsi, non si può che riprendere una considerazione dell’articolo di critica linkato poco prima: “Gli autori ricordano che in Italia operano nei centri per l’impiego 8.000 dipendenti (in realtà, per effetto della riforma Delrio non sono più di 6.000, tra pensionamenti anticipati e trasferimenti vari), mentre in Germania 80.000. Di fronte a divari organizzativi e finanziari di questa natura, non può in alcun modo convincere l’affermazione degli Autori, secondo la quale “l’innovazione tecnologica permette oggi di sviluppare i progetti anche con solo 8mila dipendenti e non 80mila come in Germania”. Giustissimo puntare sulla tecnologia e sulle competenze dei dipendenti. Ma è fin troppo semplice osservare che in Germania sicuramente non sono indietro nell’innovazione tecnologica e sanno fare di conto benissimo: se hanno un similare parco di dipendenti, 10 volte e più quello italiano, c’è una ragione”.
Lo confermiamo. Lo sviluppo di piattaforme tecnologiche per la gestione dei flussi procedurali è fondamentale, come anche l’aggancio delle banche dati di centri per l’impiego, Inps, anagrafi comunali, anagrafi tributarie e banche dati (sempre promesse e mai realizzate) dei benefici consessi a vario titolo alle persone (dai sostegni alla disoccupazione alle misure di contrasto al disagio sociale). Si tratta di strumenti conoscitivi per la programmazione e l’erogazione di servizi concreti, assolutamente indispensabili.
Ma, pensare, come suggerisce il titolo dell’articolo, ottima sua sintesi, che non occorra potenziare i servizi per il lavoro “se tutto è digitale”, per un verso è scontato, per altro verso irrealistico.
Perché sarebbe scontato? È ovvio: se davvero tutta la gestione dei servizi per il lavoro potesse essere gestita da server, router, memorie, data base, applicativi web, software, app, pc e telefonini, non servirebbe nessuna funzione di intermediazione, nemmeno privata, per la gestione del mercato. Ci penserebbero gli algoritmi di calcolo e le app a creare automaticamente le proposte di lavoro e l’incontro domanda/offerta.
Ma, la realtà ci propone, per ora almeno (in futuro non lo si può escludere che tutto sia governato da software), qualcosa di piuttosto diverso da una grande Matrix che governa il mercato del lavoro. Di piattaforme e collegamenti e banche dati, come rilevato sopra, c’è un gran bisogno.
Ritenere davvero possibile che “tutto” sia “digitale” è, però, irrealistico. Meglio precisare: non è irrealistico utilizzare al meglio le risorse digitali. È irrealistico pretendere che “tutto” lo sia.
È il caso di spiegare il perché. Riportiamo, quindi, alcuni passaggi dell’articolo degli autori: “cambia totalmente la logica del sistema, poiché permette al livello nazionale di veicolare completamente online i servizi pubblici per l’impiego. Tutto passerà attraverso la piattaforma disponibile anche per smartphone”; “Attraverso un protocollo con il Miur, si possono anche caricare i curricula di tutti gli studenti che completano scuola/università. Questo significa che l’intermediazione virtuale riguarderà la maggioranza dei destinatari del Reddito di cittadinanza e anche dei destinatari degli altri ammortizzatori sociali, che tramite il portale potranno cercare lavoro”.
Va benissimo la logica del sistema, che è quella di puntare su strumenti on line di caricamento delle informazioni e di gestione dei dati.
Non si tiene, conto, però, purtroppo, di qualche “dettaglio” che, invece, non può e non deve essere trascurato.
Il progetto di Parisi non sembra focalizzare nel modo dovuto il target dei destinatari del reddito di cittadinanza, che si fa coincidere grosso modo con le persone in stato di povertà. Ebbene, con la sperimentazione del Rei i comuni, l’Inps ed i centri per l’impiego (che per la verità da sempre avevano avuto contatto con questo tipo di utenza) hanno potuto toccare con mano una realtà evidente a tutti: i potenziali destinatari soffrono di condizioni di povertà spesso derivanti da condizioni di esclusione sociale rilevanti e di scarsa qualificazione culturale, oltre che lavorativa. Si tratta di utenti con rilevanti problemi di lingua e, anche se di lingua madre, di comprensione del testo. Soprattutto, per quanto molti di essi dispongano di smartphone, non hanno conoscenze operative di base sufficienti per saper gestire autonomamente processi di contatto tramite app, meno che mai se interamente digitali. Gli operatori sanno bene che agli sportelli giungono utenti privi anche della mail personale: il sistema delle prenotazioni degli appuntamenti per i servizi, già presente nelle realtà più avanzate, molte volte fa cilecca perché la veicolazione delle prenotazioni viaggia verso caselle di posta elettronica dei patronati e non personali. In quanto alle comunicazioni tramite Sms, parte non trascurabile di questa utenza continua a cambiare Sim e numeri ed il contatto continuativo non è per nulla garantito.
Insomma, tra le funzioni da erogare, un’attenta analisi dell’utenza, richiederebbe orientamento e formazione proprio all’utilizzo dei sistemi di comunicazione on line, sui quali il target del reddito di cittadinanza appare piuttosto in ritardo. E non consideriamo in generale i rilevanti problemi di digital divide che attanagliano il Paese.
Lo stesso sistema lineare immaginato dal Parisi richiede imprescindibili fasi con intervento “umano”, delle quali non sembra che nessuno stia tenendo conto.
Leggiamo, sempre dal Fatto on line, la sintesi procedurale del piano Parisi: “Già ad aprile, il cittadino interessato potrà compilare la domanda on line sul portale del Reddito di cittadinanza presso un Centro per l’impiego, un internet point o direttamente sul suo smartphone. Si potranno caricare i documenti per la verifica dell’idoneità e si riceverà un sms che conferma che la domanda è andata a buon fine. Due settimane dopo, un altro sms informerà il cittadino che ha appuntamento presso un centro impiego per verificare i requisiti di idoneità. L’istruttore della pratica, che si occupa della verifica dei requisiti di idoneità, esaminerà la domanda, chiarirà ogni aspetto”.
Dunque:
- vi sarà una domanda di reddito di cittadinanza;
- vi sarà un appuntamento tra richiedente e un “addetto”;
- vi sarà un’“istruttoria” sulla domanda, condotta da un “istruttore”, per la “verifica dei requisiti”.
Aggiungiamo quel che manca in questa sintesi: occorrerà un provvedimento di ammissione o di rigetto della domanda. Ma, in questo secondo caso, potrà seguire un necessario sistema per garantire un ricorso, con altra istruttoria ed altri provvedimenti.
Insomma, il piano fa apparire che tutto sia digitalizzabile, ma nella realtà come si nota emergono aspetti di gestione “burocratica”: la domanda, l’istruttoria, la valutazione.
Adempimenti in realtà non eliminabili e che richiedono (almeno, ancora ad oggi) un intervento umano.
C’è, poi, il problema della condizionalità. Sicuramente i sistemi possono veicolare le proposte di lavoro, formazione e lavori socialmente utili (sempre a patto che il destinatario del reddito di cittadinanza disponga dello smartphone e delle capacità di usare le risorse telematiche). Ma, occorre una formalizzazione dell’accettazione o, in particolare, del rifiuto. Perché da questo, in particolare, se ingiustificato, scatta la procedura per la decadenza, che ovviamente richiede un avviso, la possibilità di controdedurre presentando giustificazioni, l’adozione del provvedimento finale, la possibilità di ulteriori ricorsi. Deve essere evidenziata e giustificata l’accettazione od il rifiuto delle offerte, altrimenti il sistema salta, perché il condizionamento della percezione del reddito all’accettazione delle offerte di lavoro, formazione e lavori socialmente utili è requisito indispensabile.
Ma, questi adempimenti non possono farli solo le macchine, né sono sufficienti cartonati riproducenti dipendenti fotografati. Occorrono persone.
Quante? Uno dei difetti dell’attuale livello di programmazione della riforma dei Cpi è che nessuno ha ancora dato un’idea chiara. E’ sicuramente da escludere che bastino i nemmeno 8.000 dipendenti attuali, largamente insufficienti già oggi per le funzioni dei quali i Cpi si occupano (e che restano: accoglienza, informazione, acquisizione delle dichiarazioni di immediata disponibilità, stipulazione del patto di servizio, presidio del patto di servizio, orientamento di base, orientamento specialistico, proposte di politiche attive come formazione, tirocini, misure finanziate; e ancora le molteplici funzioni per il collocamento dei disabili, il contrasto all’evasione scolastica, le migliaia e migliaia di certificazioni dei rapporti, le risposte alle migliaia e migliaia richieste di accesso, solo per citare le principali).
L’idea degli hub? Può anch’essa essere ottima. Ma, molti dei milioni di utenti potenziali destinatari del reddito di cittadinanza non dispongono di mezzi di trasporto privato e spesso nemmeno delle risorse per il mezzo di trasporto pubblico. Chi lavora nei centri per l’impiego e segue progetti di aiuto alle categorie particolarmente svantaggiate lo sa bene.
Gli Autori Giubileo e Pastore chiosano il loro articolo così: “ai critici della riforma suggeriamo un approccio ottimistico verso il modello proposto. Molti dei problemi avanzati sono emersi anche negli Stati Uniti e sono stati facilmente risolti. D’altronde se una pubblica amministrazione rema contro, ti dirà sempre due cose: il progetto c’è già o/e stiamo cercando di farlo; oppure il tuo progetto non si può fare perché ci sono dei problemi. Ecco questo è il principale problema di attuazione di questo rivoluzionario progetto di riforma dei centri per l’impiego: l’opposizione dei burocrati che sono conservatori per natura”.
Chi scrive non ha dubbi che sarà tacciato di rientrare nell’alveo di quegli appartenenti alla “pubblica amministrazione che rema contro”.
Non importa. Sono state proposte osservazioni non finalizzate a critiche preconcette alla riforma, ma allo scopo, invece, di tenere conto di elementi progettuali che appaiono trascurati, perché la riforma possa davvero funzionare. E il potenziamento dei centri per l’impiego sembra proprio non possa mancare, sebbene non sia chiara la misura e anche il costo (non si sa nemmeno se il miliardo di euro previsto dal Governo – che prima erano due, poi 1,5 – sia una tantum o continuativo).
Infatti, si è dell’idea di chi, sempre sul tema dell’efficienza dei Centri per l’impiego, ha scritto in un recente passato: “Il software non può certo sostituire il ruolo significativo di esperti del settore e la loro conoscenza o esperienza delle politiche attive del lavoro, piuttosto è uno strumento da mettere a loro disposizione, in modo da renderne più efficiente l’operato, con molteplici vantaggi per l’attore pubblico”. Per completezza di informazione, gli Autori di quanto citato poco prima sono Francesco Pastore e Francesco Giubileo, in Lavoce.info: “Un call center per trovare lavoro”.
Luigi Oliveri
ADAPT Professional Fellow