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Numerosi sono i dibattiti sulla scuola, sulla necessità o meno che essa dialoghi o impari a dialogare con il mondo del lavoro, sulle metodologie da proporre che interessino i più giovani, li coinvolgano e utilizzino il lessico e il linguaggio delle nuove generazioni.
Esiste però una domanda che difficilmente chi insegna o progetta l’insegnamento si pone. Una domanda poco diffusa anche tra gli studenti ma che, ad un certo punto della esistenza formativa e professionale di un giovane, diventa quasi una necessità, una urgenza ed un bisogno.
Come si diventa occupabili? Cosa significa employability?
La tecnologia sta rivoluzionando il nostro modo di vivere, il nostro modo di lavorare. Sempre più diffusi sono gli spazi che diversi freelance condividono per svolgere le loro attività. Sempre più persone possono lavorare da casa o da un bar. Sempre più persone svolgeranno un lavoro di cui ancora non si conosce il nome. Cosa risulta davvero importante in questa trasformazione? Su quale fattore dobbiamo puntare per essere pronti a questo grande cambiamento? L’employability sembra essere quella condizione per affrontare il futuro che ha già aperto le sue porte.
Potremo dire che employability è proprio quella capacità, quell’occasione della persona di cercare, trovare e mantenere un’occupazione, e perché no di cambiarla o addirittura di inventarla. Questa definizione sembra però un punto di arrivo. Chiunque abbia vissuto in modo continuativo una scuola o abbia frequentato le aule accademiche sa che di quella capacità – interiore ed insieme derivante dall’esterno che ruota intorno alla persona – difficilmente si parla, che non esiste una materia o un insegnamento che si occupi delle attitudini personali o degli sviluppi che un percorso individuale può avere nel tempo.
Ci sono talvolta docenti, insegnanti, formatori illuminati che ne parlano. Attraverso il racconto di storie di realizzazione, attraverso ospiti e testimonianze in grado di far percepire il futuro che è insito in ogni presente e in ogni persona, attraverso esercizi volti a comprendere attitudini e prospettive. In quei casi – troppo pochi ancora – gli studenti iniziano a sentirsi soggetto dell’insegnamento o dell’apprendimento e si pongono domande nuove e desuete.
Si parte dalla persona. Da se stessi. Indagando capacità, abilità, passioni e talenti.
Gli stessi talenti che siamo abituati ad associare al mondo dello spettacolo o dello sport, che vengono decritti e narrati dalla comunicazione di massa come qualcosa di speciale e non comune. Con un esercizio semplice di riflessione su nostro passato di vita (scuola, amicizia, sport, volontariato, compagnie, tempo libero), scopriamo che in ognuno di noi vi è un potenziale innato che non dovrebbe restare nascosto. Conoscere e comprendere questi aspetti permette di far leva su un elemento fondamentale come la motivazione intrinseca, cioè quel motore che, solo per il fatto di svolgere una certa attività, genera soddisfazione. Quel motore che permette di superare la “fatica” che percepiamo quando dobbiamo prestare un’attività che non sentiamo nelle nostre corde, che non ci piace.
Scoprendo i talenti, quasi contemporaneamente, capiamo quali sono i nostri limiti e le nostre debolezze, che spesso coincidono con i confini delle medesime attitudini e gli spigoli dei singoli temperamenti.
Attraverso questa duplice percezione, personalissima ma possibile anche con una guida che ci consenta di esercitarci su noi stessi, giungiamo a capire cosa vogliamo fare.
Lo chiediamo ai bambini, appena sono capaci di emettere suoni articolati per rispondere: cosa vuoi fare da grande? Da loro ci attendiamo una risposta che derivi da intuizioni, passioni, sogni.
Smettiamo però di chiederlo ai giovani, o di chiederlo ai noi stessi, forse temendo di non essere più in grado di tanto slancio. Eppure solo grazie ad una conoscenza di noi stessi mescolata ad una osservazione di quello che c’è intorno a noi, nel mondo “dei grandi”, è possibile rispondere alla urgenza – umana e fisiologica – di progettarci come adulti, lavoratori, cittadini.
Esiste però uno strumento, che tutti conosciamo e prima o poi scriviamo, che raccoglie le informazioni di cui abbiamo appena discusso: il curriculum vitae. Esso rappresenta lo strumento che raccoglie i passi di una persona, che permette di raccontarne la storia, il percorso formativo, professionale ma prima ancora personale. Permette di riflettere sulle esperienze, di scuola, di lavoro e di vita, in modo da mostrare le conoscenze e competenze acquisite nel corso del tempo vissuto.
Questo strumento, il curriculum, va inteso come concetto unitario e non solo come un singolo foglio word depositato sul desktop del computer, in attesa di una idea vincente.
Il curriculum è oggi più che mai l’insieme delle tracce che lasciamo mentre siamo.
I nostri social network, ad esempio, che con tanto di foto, frasi, pensieri, contatti, amicizie ed eventi, raccontato chi siamo.
I luoghi in cui è possibile rinvenire qualcosa del nostro operato, un gruppo sportivo che frequentiamo sin dai primi anni di scuola, una parrocchia che visitiamo e animiamo settimanalmente, un progetto cui teniamo e a cui lavoriamo da tempo, una band sconosciuta in cui suoniamo il nostro strumento, una persona bisognosa a cui dedichiamo del tempo e tante energie, un contesto comunitario che ci vede agire.
Ogni cosa che facciamo entrerebbe meritatamente in un cv, ma spesso noi ignoriamo l’importanza di tante sfaccettature delle nostre vite e senza accorgercene riduciamo la consapevolezza della nostra occupabilità.
Generalmente uno studente si ritrova a scrivere il curriculum nel momento della transizione dalla scuola al lavoro piuttosto che da un corso di laurea triennale ad uno magistrale. In quei momenti topici dove cerchiamo disperatamente una continuità tra essere e fare che ci sfugge. Molto, troppo spesso, rinunciamo a scriverlo o ci affidiamo a frasi precompilate che ci raccontino senza conoscerci.
Raramente l’Università o la Scuola ci insegna a redigere un curriculum e ancor meno a riflettere su quanto il singolo insegnamento, la singola materia o la singola esperienza concorra ad incrementare competenze o a scavare un sentiero che ci porti ad una professionalità o ad un sapere che sia applicativo e utile.
Cresciamo credendo che la ricerca del lavoro non sia un affare di chi studia, di chi si prepara, e che all’improvviso, provvisti di una laurea o di un diploma, sapremo esattamente cosa fare e come farlo.
L’employability è innanzitutto la ricerca di un metodo, una consapevolezza che ci porta alla costruzione di un percorso in linea con le nostre attitudini e le mutate richieste del mondo che è intorno. Potremmo immaginarlo come un ponte, dalla persona al mondo esterno (cosiddetto mercato del lavoro, fatto di persone dentro le aziende, di persone dentro le organizzazioni e di persone che transitano da un ambito all’altro), uno zaino che accompagni la persona nelle transizioni che ripetutamente accompagnano le fasi di permanenza della persona nella fascia attiva e nella età lavorativa. Questo kit di competenze, di saper fare che va oltre il singolo lavoro e la singola professione ma che si adatta e si realizza in più professionalità e più attività accomunate da skills comuni, rappresenta una garanzia per la persona dalla disoccupazione anche quando giovani non si è più, quando storie di vita personali ci costringono ad uscire per periodi più o meno lunghi dal mercato del lavoro e sperimentiamo la difficoltà di rientrarvi.
In definitiva è una attitudine consolidata da competenze consapevoli, mature e versatili, ad adeguarsi a trasformazioni della persona e del contesto.
Cosa ci impedisce allora di inserire l’occupabilità in un insegnamento universitario, o addirittura in tutti gli insegnamenti nella misura in cui ciascuno concorre a formarne un pezzo?
Perchè la materia (o meglio lo sguardo verso il futuro che c’è dentro ogni insegnamento) che manca è la sola che potrebbe aiutarci a capire come declinare il sapere che possediamo?
Francesca Zambelli
ADAPT Junior Fellow