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La controversa decisione di reintrodurre – con il c.d. decreto dignità (DL 87/2018) – il meccanismo delle “causali” dei contratti a tempo determinato è oggetto di un dibattito politico molto intenso; i numeri, da qualsiasi angolazione provengano, finora segnalano che la scelta del legislatore non ha prodotto una crescita del lavoro a tempo indeterminato, mentre ancora è altalenante l’andamento del lavoro a tempo.
Di fronte a questi segnali negativi, non è mancato chi ha messo in luce che la riforma di luglio fosse necessaria per dare attuazione ai precetti comunitari sul lavoro a tempo determinato, e che i nuovi vincoli non sarebbero così difficili da rispettare.
Lo scopo di questo breve commento è confutare entrambe queste letture, mettendo in luce che il diritto comunitario non impone affatto una restrizione come quella appena attuata, e che il modello di causale in vigore dal luglio si caratterizza come il sistema più restrittivo nel panorama europeo.
Decreto Dignità e principi comunitari sul lavoro a tempo: due mondi lontani
Chiunque volesse sostenere che il Decreto Dignità è servito a dare attuazione ai vincoli comunitari sul lavoro a tempo sarebbe molto lontano dalla realtà, come dimostra la semplice lettura della Direttiva comunitaria n. 1999/20/CE (e l’accordo quadro cui si collega) sul lavoro a tempo determinato.
È sicuramente vero che la Direttiva persegue la finalità di “…prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato (clausola 5): tuttavia, per attuare l’obiettivo di contenere l’eccessiva reiterazione dei contratti a tempo determinato, la Direttiva indica alcune misure alternative che il legislatore nazionale può decidere di applicare sulla base di una valutazione discrezionale.
In particolare, la Clausola 5 prevede che gli Stati Membri “dovranno introdurre […] una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti”.
La normativa comunitaria, quindi, impone agli Stati Membri di limitare l’eccessiva reiterazione e successione dei contratti a tempo determinato, ma lascia un ampio margine di discrezionalità agli stessi sulle modalità con cui dovrà essere perseguito l’obiettivo, limitandosi a indicare una serie di misure alternative tra loro; nessuna norma impone, quindi, di adottare le causali.
L’assenza del principio di causalità è confermata dalla lettura della Clausola 3, comma 1, della Direttiva, la quale definisce il contratto di lavoro subordinato a termine come il contratto la cui durata è fatta dipendere “da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico”.
La clausola considera quindi possibile l’apposizione di un termine finale anche quando non siano indicate le esigenze di ricorso, ma si verifichi solo un fatto oggettivo quale il raggiungimento di una certa data.
Il principio di causalità non trova applicazione neppure con riferimento ai rinnovi o alla successione di contratti; come chiarisce bene il Considerando n. 7 della direttiva, l’obbligo di indicare le esigenze di ricorso al contratto è solo uno tra i possibili mezzi che gli Stati Membri possono utilizzare “per prevenire gli abusi”, ma certamente non l’unico.
La specialità della somministrazione
Ancora più lontana da un approccio restrittivo è la Direttiva 2008/104/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa al lavoro tramite agenzia (la somministrazione, per usare una terminologia nazionale).
I principi di questa Direttiva sono particolarmente importanti in quanto consentono di mettere in luce le profonde differenze che sussistono tra la fattispecie del lavoro tramite agenzia e quella del contratto a termine (che viene regolamentato in una diversa e distinta Direttiva, la n. 70/1999), che spesso sono erroneamente accomunate.
Considerando il n. 11 della Direttiva afferma che “il lavoro tramite agenzia interinale risponde non solo alle esigenze di flessibilità delle imprese ma anche alla necessità di conciliare la vita privata e la vita professionale dei lavoratori dipendenti. Contribuisce pertanto alla creazione di posti di lavoro e alla partecipazione al mercato del lavoro e all’inserimento in tale mercato”. Questa formula sembra collocare il lavoro tramite agenzia entro una cornice di particolare favore rispetto al lavoro a tempo determinato.
L’art. 4 prevede che i divieti o le restrizioni imposti al ricorso al lavoro tramite agenzie di lavoro interinale sono giustificati soltanto da ragioni d’interesse generale (la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale, le prescrizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro o la necessità di garantire il buon funzionamento del mercato del lavoro e la prevenzione di abusi).
La norma amplifica la differenza tra la somministrazione a termine e il lavoro a tempo determinato: mentre per il lavoro a termine la Direttiva n. 70/1999 prevedeva come forma di contrasto dell’eccessiva reiterazione proprio la causale (in alternativa o in aggiunta ad altri strumenti), per il lavoro somministrato viene invocata la rimozione di limiti che non siano giustificati da ragioni di interesse generale.
Non è vero che il Decreto Dignità ha introdotto una “causale attenuata”
Altro argomento che viene proposto per giustificare la reintroduzione della causale riguarda la natura “attenuata” che caratterizzerebbe il sistema italiano; anche questo argomento è molto lontano dall’effettivo assetto normativo.
Come dimostrano gli studi più recenti e approfonditi sulla materia[1], gli stati membri dell’Unione Europea hanno un approccio diverso al tema: si va da ordinamenti dove la causale è del tutto assente (il Regno Unito) sino a sistemi dove le causali hanno un peso rilevante, come in Francia. Nel mezzo, ci sono sistemi definibili di “causale attenuata” come quello tedesco, dove la causale è obbligatoria solo dopo un certo periodo.
Il sistema introdotto dal D.L. 87/2018 costituisce una novità molto forte rispetto a questo scenario; considerata l’estrema rigidità dei casi che consentono di utilizzare il lavoro a termine dopo i primi 12 mesi, si potrebbe definire un sistema di “causale impossibile”.
Le nuove causali, infatti, sono affette da un doppio vizio: vanno incontro a una strutturale instabilità in sede giudiziale, e hanno un campo di applicazione troppo ristretto.
Il primo problema si pone per l’ampio margine di discrezionalità che la giurisprudenza da sempre applica sul tema delle causali; questa discrezionalità sarà enfatizzata dalle causali introdotte dal DL 87/2018, che utilizza formule talmente imprecise da rende quasi impossibile la scrittura delle causali.
Come potrà un’azienda avere in anticipo la certezza che un certo incremento di attività si può considerare “significativo”? Chi potrà dire con certezza che un certo fabbisogno si può considerare “non programmabile”? Ancora più oscuro è il requisito della “estraneità” all’ordinaria attività dell’impresa: un’azienda che produce macchine e ha un ufficio marketing, potrà considerare le promozioni commerciali come qualcosa di “estraneo” all’ordinaria attività?
Le opzioni saranno talmente tante che ciascun giudice – in assenza di parametri solidi – potrà dare una valutazione diversa da quella operata dal datore di lavoro, trasformando la causale in una grande lotteria giudiziaria.
Lotteria dalla quale non usciranno sconfitte solo le aziende che avranno “applicato male” le norme, ma anche quei datori di lavoro che avranno la sfortuna o l’imperizia di scrivere delle causali non in linea con il convincimento personale del giudice di volta in volta chiamato a valutare il contratto.
Anche volendo dimenticare i problemi interpretativi, le esigenze indicate dal D.L. 87/2018 sono talmente restrittive ed eccezionali da risultare applicabili in pochissimi casi.
La prima causale si compone, infatti, di ben tre elementi, che dovranno coesistere contemporaneamente: esigenze “temporanee”, “oggettive” ed “estranee all’ordinaria attività”. Se un negozio di abbigliamento avrà bisogno, ad esempio, di un lavoratore a termine già utilizzato in passato per gestire una campagna promozionale della durata di un mese, non potrà procedere al rinnovo del contratto: l’esigenza è temporanea, è oggettiva ma non è certamente estranea all’attività ordinaria.
Né potrebbe soccorrere la seconda causale prevista dal decreto: incrementi “temporanei”, “significativi” e “non programmabili” dell’attività ordinaria.
Anche in questo caso, infatti, ci sarebbero solo due delle tre condizioni: l’incremento sarebbe temporaneo, sarebbe significativo ma non potrebbe definirsi “non programmabile”.
Conclusioni
La scelta di introdurre un sistema di causali mai sperimentato nel nostro ordinamento – più rigido anche delle norme vigenti negli anni sessanta – è frutto di una precisa scelta politica, che si può contestare o condividere, ma non ha nulla a che fare con le regole comunitarie, che consentirebbero un approccio ben diverso.
E non si può minimizzare l’oggettiva difficoltà cui andrà incontro chiunque tenterà di usare le oscure formule introdotte dal legislatore: anche questa difficoltà è voluta dal legislatore, che ha ripetutamente rivendicato un approccio di questo tipo.
Vedremo nei prossimi mesi se questa impostazione avrà effetti concreti, negativi o positivi, sul mercato del lavoro, o se invece sarà del tutto ininfluente rispetto alle dinamiche imposte dalla grande trasformazione del lavoro, come suggeriscono gli interpreti che considerano antiquata e “novecentesca” questa lotta quotidiana sui limiti e le restrizioni da applicare al lavoro flessibile. Lettura, questa, che coglie molto bene i fenomeni di medio e lungo periodo, ma che forse non esonera gli operatori e gli interpreti dal peso di gestire la quotidianità di una riforma che sta avendo un impatto molto forte sulla vita delle imprese e dei lavoratori.
Giampiero Falasca
[1] Si veda l’ebook ADAPT, Un approccio comparato alle regole del contratto a tempo determinato in Europa, Diogo Silva.