Professionalità, valutazione e trasparenza: dallo jus variandi alla dirigenza pubblica

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Bollettino ADAPT 8 gennaio 2019, n. 1

 

Nell’era della quarta rivoluzione industriale, denominata Industry 4.0, stiamo assistendo ad una radicale trasformazione del lavoro, infatti, per definire tale fenomeno attraverso le parole di Weiss: “il lavoro diventa merce che viene scambiata nel mondo virtuale, al di fuori di una cornice legale e regolatoria.” (M. Weiss, Digitalizzazione: sfide e prospettive per il diritto del lavoro, in Diritto della Relazioni Industriali, n. 3 del 2016, p. 653). La sfida in atto, che il giuslavorista deve fronteggiare, riguarda le modalità ed il come garantire il rispetto degli obiettivi del diritto del lavoro, nell’era digitale. Già nel 1887 Sidney e Beatrice Webb, nel testo “Industrial Democracy, Longmans, 1926”, analizzavano le ragioni della crisi del diritto del lavoro nei paesi economicamente avanzati. La vocazione storica del diritto del lavoro, quale base del modo di fare impresa e del mercato del lavoro è stata “fortemente depotenziata” (per usare la definizione di M. Tiraboschi, in “Teoria e pratica dei contratti di lavoro”, 2018, p. 5) da vari fattori intervenuti successivamente, quali: il superamento dei metodi di produzione standardizzati (propri dell’economia fordista) e l’internazionalizzazione dei mercati (conseguenza della globalizzazione). La realtà che stiamo vivendo ha visto un sostanziale mutamento del contesto lavorativo, le cui conseguenze sono rappresentate dall’invecchiamento della forza- lavoro e dall’obsolescenza delle competenze dei lavoratori e, di fondamentale importanza, dalla continua ricerca di innovazione. Ciò porta ad un percorso di differenziazione degli assetti regolatori del lavoro, alla ricerca di un nuovo paradigma fondativo (M. Tiraboschi, in “Teoria e pratica dei contratti di lavoro”, 2018, p. 6).

 

In riferimento al concetto di professionalità, oggetto di approfondimento, anche alla luce delle riflessioni emerse a seguito del Convegno Internazionale, da poco conclusosi, a mio avviso si potrebbe partire dall’analisi del cambiamento del mercato del lavoro, che porta a ridefinire la formazione professionale, sempre più orientata verso abilità di adattamento e apprendimento, necessarie per fronteggiare le sfide poste dalle nuove forme di lavoro. Prendendo spunto dalla definizione che ne dà Garilli:” La professionalità è una zona sismica dove si incontrano e si scontrano i diversi principi costituzionali, le fonti di diritto pubblico e di diritto privato, quelle legali e quelle contrattuali, il potere della dirigenza e l’autonomia collettiva. Essa rappresenta un elemento di ambivalenza e di tensione con il potere politico e con il sistema organizzativo degli uffici e del lavoro. La professionalità non è solo funzionale alla produttività- efficienza, ponendosi in correlazione con le tecniche di amministrazione concernenti l’organizzazione e i metodi di lavoro, ma costituisce strumento di difesa del corpo burocratico dagli assalti dell’esecutivo.” (A. Garilli, Profili dell’organizzazione e tutela della professionalità nelle pubbliche amministrazioni, 2015, p. 4). Le riforme che il Governo ha posto in essere hanno ridimensionato la tutela del lavoratore, modificando la nozione di professionalità, conferendo al lavoratore una posizione più dinamica.

 

Ogni organizzazione ha bisogno di una serie di apparati professionali, che si traducono in modelli di prestazione, ed ogni lavoratore, nella misura in cui svolge un determinato tipo di attività, occupa una posizione lavorativa e ricopre un ruolo nell’ambito dell’organizzazione, (G. Giugni, “Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro”, Napoli, 1963, p. 3 e ss.). In riferimento all’analisi che sto delineando, è centrale la peculiarità, nel contratto di lavoro, data al datore di lavoro di modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore. Tale potere, denominato jus variandi, è giustificato dall’esigenza di variazione funzionale ed organizzativa del lavoro. Il novellato art. 2103 c.c., come modificato dal D. Lgs. 81/2015, disciplina le disposizioni riguardanti il mutamento delle mansioni, ma in riferimento solo al settore privato, poiché il settore delle pubbliche amministrazioni rimane regolato dall’invariato art. 52 del D. Lgs. 165/2001. Quest’ultimo dà rilievo, per esigenze proprie di buon andamento della pubblica amministrazione, solo al criterio dell’equivalenza formale, riferendosi alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, a prescindere dalla professionalità in concreto acquisita. Si esclude, di conseguenza, il riferimento all’articolo 2103 c.c. ed alla tutela del c.d. bagaglio professionale del lavoratore. Non si ravvisa la violazione dell’art. 52 qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, in quanto condizione necessaria è proprio tale previsione, indipendentemente dalla professionalità acquisita. Ciò in considerazione dell’aspetto soggettivo del concetto di professionalità acquisita, inconciliabile e distante dalle esigenze di certezza, di corrispondenza tra le mansioni e posto in organico, che in modo schematico e rituale caratterizza il rapporto di lavoro pubblico (Cass. Sez. Lav. n. 11835 del 21 maggio 2009).

 

In definitiva, l’equivalenza formale, che scaturisce dalle norme contrattuali del pubblico impiego, comporta che le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, siano esigibili e l’assegnazione di mansioni equivalenti, costituisca atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro (Cass. Sez. Lav. n. 2011 del 26 gennaio 2017). È importante sottolineare che la destinazione ad altre mansioni, comporta il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa: ciò esula dalla problematica dell’equivalenza delle mansioni, configurandosi nella diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nel pubblico impiego.

 

Il nuovo art. 2103 c.c., conferisce maggiore flessibilità al datore di lavoro nella gestione dell’azienda. Le mansioni che il lavoratore deve svolgere, rappresentano la prestazione dovuta al datore, cioè l’oggetto del contratto. La contrattazione collettiva, suddivide le mansioni in diverse qualifiche, ma per figura professionale, riunite nelle quattro grandi categorie: dirigenti, quadri, impiegati e operai (ex art. 2095 c.c.). L’elasticità offerta al datore di lavoro, porta ad una maggiore flessibilità organizzativa, che apporta un contributo migliorativo alla gestione aziendale, bilanciando “l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale” con l’interesse qualificato del lavoratore “alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche”. La sostanziale modifica riguarda il bene soggetto a tutela: non più la “professionalità in fase pregressa, ma la professionalità classificata in astratto in un determinato contesto organizzativo aziendale”. (M. Brollo, La disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act, in Argomenti Dir. Lav., 2015, 6, p. 1116). Il parametro di riferimento non è più il “concreto contenuto delle mansioni che il dipendente ha svolto, bensì sono le previsioni del sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto” (V. Nuzzo, 2015, Il nuovo art. 2103 C.C. e la (non più necessaria) equivalenza professionale delle mansioni, RIDL, 2015, II, p. 1047).

 

Nell’azienda il lavoratore viene considerato nella totalità della sua occupazione e vengono considerate le potenzialità derivanti dallo svolgimento di nuove e diverse mansioni. Se il lavoratore non ha esperienza in determinate attività richieste, non è impossibile che gli vengano comunque affidati determinati compiti afferenti tali attività. È a carico del datore di lavoro la formazione del dipendente (art. 2103 c.c., 3˚ comma), infatti: se il lavoratore può “muoversi” da una mansione all’altra, ampliando le sue competenze tecniche, di contro, il datore di lavoro ne guadagna in flessibilità, rendimento e migliore organizzazione. La prestazione è gravata dall’esigenza di una maggiore flessibilità e il raggio di azione dello jus variandi orizzontale, interessa anche la possibilità che al lavoratore siano affidate anche mansioni diverse dalle ultime svolte, nel rispetto del limite dello stesso inquadramento e categoria legale concordata all’atto della sottoscrizione del contratto di lavoro.Un margine ampio è riconosciuto alle parti sociali, la contrattazione collettiva, a qualsiasi livello, può individuare ulteriori ipotesi che modifichino l’inquadramento contrattuale.In caso di passaggio di mansioni, si deve far riferimento alle mansioni equivalenti, cioè riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Il riferimento al livello contrattuale ed alla categoria, è imprescindibile, per il passaggio alle nuove mansioni.

 

In un’ottica comparata rileva analizzare la portata della c.d. “Riforma Renzi” dell’art. 2103 c.c., anche in rapporto ad un sistema diverso, di stampo iper- liberista, quale quello inglese. Lo ius variandi datoriale, in Italia, trova la propria fonte normativa inderogabile nell’art. 2103 c.c., mentre in Inghilterra, la disciplina è rinvenibile: sia nei precedenti giurisprudenziali, che nella disciplina contrattuale, quest’ultima si realizza attraverso la previsione di clausole di mobilità, che attribuiscono al datore un vero e proprio potere. Nel nostro ordinamento, invece, tale prassi contrattuale è ammessa solo se la deroga contrattuale, rispetto i precetti inderogabili previsti dall’art. 2103 c.c.c, sia più favorevole, ma ciò non si verifica frequentemente. La base per analizzare tale potere datoriale è data dalla necessità di una chiara e sufficiente identificazione dei compiti convenuti dalle parti, che consente all’interprete di avere gli strumenti per valutare “se la modifica unilaterale delle mansioni rappresenti l’esercizio del potere datoriale (direttivo e/o di conformazione) di specificare la prestazione lavorativa oppure, all’opposto, una variazione della prestazione inizialmente dedotta nel contratto” (V. Del Gaiso, “Lo jus variandi nei sistemi italiano e inglese: brevi note comparative”, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 3 del 2018, p. 854). Solamente nell’ultimo caso sarà necessario il giudizio sulla legittimità dell’esercizio dello jus variandi datoriale. Se prima della riforma del 2015 il legislatore si è ispirato alla logica della “flessibilizzazione della disciplina del licenziamento, delle mansioni e, pure, dei vincoli relativi ai controlli a distanza” al fine di rendere più interessante il contratto di lavoro a tempo indeterminato, bisogna rilevare che se la flessibilità organizzativa e gestionale era subordinata alla tutela della professionalità del lavoratore, a seguito della riforma, di contro, il favor è rivolto al datore di lavoro. Tale dinamica ha avvicinato il nostro sistema a quello inglese, dove si presta più attenzione alle prerogative datoriali, mettendo in secondo piano il garantismo individuale (V. Del Gaiso, “Lo jus variandi nei sistemi italiano e inglese: brevi note comparative”, in Diritto delle Relazioni Industriali, n. 3 del 2018, pp. 883 ss.).

 

La professionalità, è oggetto di valutazione nel rapporto di lavoro e, proprio la c.d. “Riforma Brunetta” ha come obiettivo quello di rendere effettiva la tutela della professionalità del lavoratore anche attraverso la contrattazione collettiva. Anche il datore di lavoro pubblico ha avvertito la necessità di dotarsi di strutture maggiormente competitive e flessibili, nel rispetto dei doveri istituzionali di efficienza e buon andamento. Ciò ha rappresentato una svolta nel percorso di riforma della dirigenza pubblica, che, grazie al D.Lgs. 27 ottobre 2009, n.150, ha visto l’introduzione di specifiche ipotesi di responsabilità dei dirigenti ma, al contempo, ne ha ampliato le prerogative, mediante l’attribuzione di poteri concreti inerenti il controllo della qualità e quantità del lavoro del personale assegnato. In sostanza, oltre l’introduzione di meccanismi di valutazione del lavoro e della professionalità, tale riforma è stata anche caratterizzata da un forte taglio di discrezionalità sussistente in capo alla pubblica amministrazione, all’atto del conferimento o della revoca dell’incarico. Il legislatore persegue il fine di rendere più meritocratica, premiale e trasparente la pubblica amministrazione.

La legge n. 15 del 4 marzo 2009 delinea i temi principali della riforma: performance, valutazione, trasparenza, premi e sanzioni disciplinari, dirigenza, contrattazione collettiva e azione collettiva, in particolare l’articolo 4, ha introdotto principi e criteri in materia di valutazione delle strutture e del personale delle amministrazioni pubbliche. Gli obiettivi sono assegnati osservando i seguenti criteri, al fine di garantire la trasparenza della valutazione:

 

  • rilevanza dell’obiettivo nell’ambito delle attività svolte dal valutato;
  • misurabilità dell’obiettivo;
  • controllabilità dell’obiettivo da parte del valutato;
  • chiarezza del limite temporale di riferimento.

 

L’apporto innovativo introdotto dalla riforma, riguarda gli strumenti premiali per misurare e valorizzare il merito, individuati nel decreto: il trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale e organizzativa, il bonus annuale delle eccellenze, il premio annuale per l’innovazione, le progressioni economiche e di carriera, l’attribuzione di incarichi di responsabilità, l’accesso a percorsi di alta formazione e crescita professionale.

 

Il tema della trasparenza è di estrema attualità e, proprio la realizzazione concreta e trasparente dell’azione amministrativa è, non solo disciplinata dai principi e criteri enunciati dall’articolo 4 della L. 15 del 4 marzo 2009, ma va anche ricercata nella legislazione successiva, precisamente nella normativa anticorruzione. Trasparenza è pubblicità dell’agire della pubblica amministrazione, cioè realizzazione della condotta diretta alla tutela degli interessi pubblici, riconducibile ai principi enunciati dall’articolo 97 Cost.: buon andamento ed imparzialità.

Le due riforme sul piano dei principi cardine posti a fondamento e guida, si pongono in rapporto di “continuità- progressione”. L’attenzione rivolta alla valutazione individuale, unitamente alla promozione dell’etica nelle amministrazioni, elemento armonico ed in continuità con i  principi espressi dalla Corte Costituzionale, che presiedono il corretto funzionamento del sistema di pianificazione per obiettivi prima, e di controllo/valutazione delle performances poi, possono influire sia positivamente sulla premialità che negativamente  sulle eventuali sanzioni (D. Bolognino, ”Il necessario coordinamento tra il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione (P.T.P.C.) e gli strumenti del ciclo delle performances. Principi efficientistici e valorizzazione dell’etica nel conferimento delle “premialità” e nell’erogazione delle sanzioni.”, in Riv. Di Diritto Amministrativo, Fascicolo n. 3-4/2014).

 

Alessandra Fierri

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@FierriA

 

Professionalità, valutazione e trasparenza: dallo jus variandi alla dirigenza pubblica
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