Bollettino ADAPT 11 febbraio 2019, n. 6
In un mondo che si è messo a correre in fretta, gli orizzonti cambiano nel giro di poche ore e la comunicazione, grazie alle nuove tecnologie, diffonde gli eventi nell’intervallo di pochi secondi lungo tutte le latitudini e le longitudini. Capita allora che una decisione presa a distanza di tempo rispetto a quando se ne prevedono gli effetti, possa rivelarsi – al momento della sua esecuzione – un atto controproducente e negativo per le finalità dei promotori. È il caso classico dei referendum. Sono consultazioni che si svolgono dopo mesi se non anni da quando furono promosse; così, per molti motivi, capita spesso che il senso dei quesiti debba misurarsi con il giudizio di un’opinione pubblica che, nel frattempo, ha mutato i propri orientamenti. Le grandi organizzazioni sono costrette ad assumere decisioni la cui esecuzione è inevitabilmente molto più complessa e laboriosa di quelle viaggiano su di un tweet o un post di un social. E queste decisioni seguono i loro tempi con il rischio di diventare operative quando le loro finalità vengono superate dall’evoluzione dei fatti.
Prendiamo il caso della manifestazione promossa da Cgil, Cisl e Uil lo scorso 9 febbraio. Quando i gruppi dirigenti si orientarono ad adottare un’iniziativa di lotta per cambiare la politica economica del governo c’era da chiedersi se volessero salvarsi la coscienza. La legge di bilancio era ormai definita, senza che le confederazioni avessero potuto esprimere un parere. Il premier aveva convocato i segretari generali all’ultimo momento per scusarsi di non averlo fatto prima e per dare loro appuntamento in occasione della manovra dell’anno prossimo. In verità, anche i sindacati non sapevano bene che pesci pigliare. La Cgil era impegnata nelle fasi finali del XVIII Congresso con qualche incertezza sulla linea politica che si rifletteva anche sulla composizione (e sugli indirizzi) del gruppo dirigente. Ma soprattutto, le confederazioni erano state prese in contropiede dalle scelte del governo, improntate, sul piano della demagogia, a forme di concorrenza sleale, in grado tuttavia di mietere consenso tra i lavoratori. In sostanza, decidere una manifestazione nazionale per rivendicare quanto la maggioranza ed il governo avevano deciso di sacrificare (una politica di investimenti) appariva come un ritorno ad una vicenda trascorsa e già esaurita. I punti stessi della piattaforma erano “fuori mercato”, appartenevano alla storia di una battaglia perduta, senza neppure combattere; costituivano l’affannosa ricerca di un’opportunità di rivalsa che l’avversario si guardava bene dal riconoscere e dal concedere. Questa volta, però, il destino è stato benevolo con le organizzazioni sindacali ed ha voluto premiare il loro coraggio di osare (è significativa la decisione di convocare il raduno in Piazza San Giovanni e non a Piazza del Popolo, come si era pensato in un primo momento). La manifestazione del 9 febbraio non è stata l’ultima battaglia di retroguardia di un esercito in fuga, ma è divenuta la prima iniziativa di massa, di un soggetto di rango “istituzionale”, contro un governo che sta sfasciando il Paese.
La situazione si è molto logorata rispetto al momento in cui la manovra è stata imposta al Parlamento. Il governo usciva, allora, ridimensionato nella sua prosopopea anti-Ue, ma nello stesso tempo si era messo al riparo da guai più seri (come l’apertura della procedura d’infrazione). Anche la morsa degli indicatori economico-finanziari (si pensi allo spread) sembrava allentarsi. Ma il quadro è cambiato in un attimo: l’Italia è in recessione; gli obiettivi, pur ridimensionati, di crescita sui quali si regge la manovra di bilancio, sono divenuti, più che velleitari, proibitivi, in quanto sarebbero necessari nei prossimi trimestri tassi di crescita in controtendenza con la stretta che si annuncia sui mercati internazionali. La maggioranza sta facendo opposizione a se stessa proprio sul terreno degli investimenti (Tav, trivellazioni, opere pubbliche, ecc.) e non sembra più in grado di assumere una qualsiasi decisione, se non quella di occupare – non senza contrasti interni – posizioni di potere. Il Paese è non solo isolato in Europa, ma esponenti del governo, di provocazioni, ne infilano una dopo l’altra; e si tratta di prese di posizione gravissime, che, ogni giorno che passa, assumono toni ancor più sorprendenti per l’ottusa irresponsabilità che manifestano. Si pensi che l’Italia è ad un passo dalla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia, a causa di affermazioni inventate (il neocolonialismo del franco) ed iniziative sventate (fare i “reggicoda” ai Gilè gialli). Ma il cupio dissolvi è inarrestabile.
In quale Paese due vice presidenti del Consiglio, uomini forti del regime, si permettono di delegittimare, davanti ad un’assemblea di risparmiatori che pretendono di essere risarciti per la loro dabbenaggine, il vertice della Banca Centrale? Ecco, allora, che, grazie al capovolgimento del fronte, le confederazioni sindacali – magari ad insaputa dei loro leader – si sono trovate, il 9 febbraio, all’avanguardia di un movimento di reazione contro il precipitare del Paese verso il declino. Non è ancora detto che siano all’altezza di questo compito. Ma ormai solo loro sono in grado di provarci. Prima che sia troppo tardi.
Membro del Comitato scientifico ADAPT