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Bollettino ADAPT 11 marzo 2019, n. 10
L’analisi di Dario Di Vico sul reddito di cittadinanza tocca un punto fondamentale: dal momento in cui le persone si mettono in fila per richiederlo, cambia tutto. Le polemiche e le critiche, spesso giuste e doverose, che hanno accompagnato il tortuoso iter della riforma simbolo del governo ora hanno un peso inferiore. Che piaccia o meno infatti, il reddito di cittadinanza verrà erogato nei prossimi mesi ad una platea che, secondo l’Istat, sarà di circa 2,7 milioni di persone. E il provvedimento nella sua fase operativa entra in un territorio ignoto nel quale giocano un ruolo fondamentale attori non coinvolti nelle fasi iniziali: le Regioni, i Caf, i Centri per l’impiego, le Agenzie per il lavoro, i servizi sociali dei comuni e altri ancora. Il funzionamento del reddito di cittadinanza dipenderà soprattutto da loro, nei suoi successi e nei suoi fallimenti.
Uno di questi attori sono i tanto discussi Centri per l’impiego, dei quali sono note l’inefficienza, le poche competenze degli addetti, le infrastrutture tecnologiche datate o spesso assenti. Per provare a invertire la rotta il governo ha pensato di introdurre, in un numero tra i 4500 e i 6000, gli ormai celebri navigator. Ed è proprio su questo aspetto che non siamo d’accordo con Di Vico il quale consiglia di bloccare le assunzioni di queste figure che, in quanto reclutati con contratti di collaborazione di due anni, rischiano di diventare l’emblema del nuovo precariato generato proprio da un provvedimento che vorrebbe ridare centralità al lavoro. Siamo coscienti dei rischi e anche dell’assenza dei tempi necessari per selezionare e formare queste figure, ma senza di loro il danno sarebbe ancora maggiore. Infatti se le 900mila persone che firmeranno il patto per il lavoro si affideranno unicamente al personale presente oggi nei Centri per l’impiego l’ipotesi di un reddito di cittadinanza rinnovato negli anni senza alcun reinserimento lavorativo è quasi una certezza. Con il risultato che il reddito non sarebbe altro che una misura puramente assistenziale, e quindi un costo senza alcun investimento.
La sfida oggi dovrebbe essere quella di individuare il profilo professionale del navigator, magari cambiando un nome che ha generato più scherno che riflessione. C’è chi ha parlato di cacciatori di teste, chi di collocatori, chi di operatori della rete dei servizi al lavoro, chi ha richiamato i profili professionali dei repertori pubblici delle Regioni. Ma tutte queste definizioni sono lontane dalla realtà della platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza. Platea composta da persone in seria difficoltà economica e in stato di povertà, oltre che per il 65% con la terza media o senza titolo di studio. Non quindi persone in un momentaneo momento di debolezza che hanno bisogno di una semplice spinta per tornare del mercato del lavoro.
E così si intuisce la complessità del ruolo del navigator che sarà soprattutto quello di lavorare per l’inclusione sociale. Ben vengano dunque nuovi operatori di un sistema di welfare che cambia pelle, a condizione che venga loro affidato un compito ragionevole che è quello di accompagnare una vasta platea di invisibili e inattivi alla riconquista della dignità di cittadini prima ancora che di lavoratori. Tenendo peraltro a mente che sono in ogni caso destinate al fallimento quelle vecchie politiche di collocamento da “posto” a “posto” che stridono con le dinamiche di un lavoro che è profondamente mutato. Le persone non si collocano come pacchi postali, ma con loro si costruiscono percorsi di occupabilità che sono possibili a condizione di mettere finalmente al centro del dibattito pubblico una vera rivoluzione della formazione.
Direttore Fondazione ADAPT
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
*una versione precedente di questo articolo è pubblicato anche sul Corriere della Sera, 10 marzo 2019