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Bollettino ADAPT 23 aprile 2019, n. 16
Tra le vicende estintive più comuni del contratto di lavoro a tempo indeterminato si riscontrano due ipotesi, entrambe riconducibili al recesso, atto unilaterale recettizio, che assume una diversa denominazione a seconda che a porlo in essere sia il datore di lavoro o il lavoratore: il licenziamento e le dimissioni.
Se il Codice Civile del 1942 agli artt. 2118 e 2119 dettava una disciplina unitaria del recesso dal contratto di lavoro, a prescindere da quale parte venisse esercitato, il successivo intervento del legislatore ha poi modificato tale assetto normativo, distinguendo in maniera significativa la materia del licenziamento da quella delle dimissioni.
Con riguardo all’istituto delle dimissioni, le regole generali applicabili sono ancora quelle previste dagli articoli precedentemente menzionati, alle quali però vanno aggiunte alcune disposizioni disciplinanti l’aspetto procedurale (cfr. art. 26 del d.lgs. n. 151 del 2015) introdotte dal legislatore per frenare il diffondersi della cattiva prassi delle c.d. dimissioni in bianco, cioè dimissioni predisposte su richiesta del datore di lavoro all’atto dell’assunzione o durante il rapporto.
Emerge così, a partire dalla legge n. 188 del 2007 fino ad arrivare al d.lgs. n. 151 del 2015, una tendenza alla formalizzazione o procedimentalizzazione delle dimissioni, che vede il lavoratore libero di rassegnarle senza particolari vincoli o limiti, se non quelle della formalizzazione in via telematica e del preavviso al datore di lavoro.
Esistono però delle particolari ipotesi in cui non ricorre quest’ultimo obbligo. Del preavviso può farsi a meno, infatti, ove si verifichi “una causa che non consente la prosecuzione, neppure provvisoria, del rapporto” (art. 2119 c.c.), ovvero le dimissioni per giusta causa, riscontrabili in presenza di un grave inadempimento del datore di lavoro, fornendo in tal modo il diritto di recedere dal rapporto con effetto immediato e senza essere tenuto a prestare la sua attività nel periodo di preavviso previsto dal contratto collettivo.
Tra i motivi che concretizzano e giustificano la sussistenza delle dimissioni per giusta causa è possibile riscontrare: a) il reiterato mancato pagamento della retribuzione (cfr. Cass., 26 gennaio 1988, n. 648; nel merito v. Trib. Milano 10 maggio 2013); b) le molestie sessuali perpetrate sul luogo di lavoro (cfr. Trib. Milano, 16 giugno 1999); c) il mobbing; d) la notevole variazioni nelle condizioni di lavoro susseguenti alla cessione dell’azienda o ramo di essa (art. 2112 c.c.); e) lo spostamento del lavoratore da un’unità produttiva all’altra senza che siano sussistenti le “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” richieste dal (nuovo) art. 2103 c.c.; f) il comportamento ingiurioso del superiore gerarchico nei confronti dell’interessato (cfr. Cass., 11 febbraio 2000, n. 1542; Cass., 29 novembre 1985, n. 5977); g) modificazioni fortemente peggiorative delle mansioni, tali da pregiudicare la vita professionale del lavoratore (cfr. Cass., 13 giugno 2014, n. 13485).
Interessante è la lettura di quest’ultima motivazione alla luce del “nuovo” articolo 2103 c.c., così come novellato dall’art. 3 del d.lgs. 81 del 2015, che interviene in modo fortemente incisivo, oltre che in materia di flessibilità in uscita, anche sulla flessibilità all’interno del rapporto di lavoro.
Il datore di lavoro, infatti, ha ora la facoltà di variare le mansioni iniziali, adibendo di regola il lavoratore a: a) mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte; b) mansioni corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito; c) mansioni superiori a quelle in cui è inquadrato; d) mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, purché nell’ambito della medesima categoria legale e solo “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore”.
Se in tal modo vengono contemperate due esigenze contrapposte, ovvero quella datoriale di poter disporre di una “flessibilità interna” delle competenze del lavoratore e quella del lavoratore, di non vedersi spostato senza che vi sia alcun nesso tra le diverse posizioni ricoperte, è altresì possibile riscontrare delle criticità per quanto riguarda la modifica orizzontale delle mansioni.
Questo perché l’individuazione puntuale dell’ambito in cui più mansioni possono considerarsi interscambiabili è oggetto, da sempre, di un ricco contenzioso, specialmente con riguardo al vecchio filtro costituito dalla nozione di “equivalenza”.
In passato era, infatti, il concetto di equivalenza a rappresentare il limite alla possibilità di modificare le mansioni del lavoratore, passando, negli anni, da una visione e interpretazione più rigida di tale equivalenza ad una prospettiva maggiormente dinamica di valorizzazione delle capacità del singolo e di arricchimento dell’insieme di conoscenze ed esperienze.
Quello che si accertava era anche che i nuovi compiti fossero in grado di garantire lo svolgimento e l’accrescimento delle capacità del lavoratore, con le conseguenti possibilità di miglioramento professionale, di esperienza e di perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto “e ad impedire, conseguentemente, che le nuove mansioni determinino una perdita delle potenzialità professionali acquisite o affinate sino a quel momento, o che per altro verso comportino una sottoutilizzazione del patrimonio professionale del lavoratore, avendosi riguardo non solo alla natura intrinseca delle attività esplicate dal lavoratore ma anche al grado di autonomia e discrezionalità nel loro esercizio, nonché alla posizione del dipendente nel contesto dell’organizzazione aziendale del lavoro” (cfr. Cass. 14 dicembre 2018, n. 32546).
A seguito della modifica della norma in questione, invece, si individua nel “livello di inquadramento” un limite più preciso, riferito, dunque, ai sistemi di classificazione del personale previsti dalla contrattazione collettiva.
Conseguentemente, il controllo del giudice sulla legittimità dell’esercizio dello ius variandi dovrebbe essere limitato ad accertare, oltre all’uguaglianza retributiva, che le nuove mansioni appartengano al medesimo livello e categoria in cui è inquadrato il lavoratore (cfr. Tribunale Roma, sez. lav., 31 ottobre 2018, n. 8357).
Spostando quindi l’attenzione dalla professionalità che il lavoratore ha per svolgere una determinata mansione, alla posizione che il lavoratore occupa formalmente all’interno dell’impresa, è e sarà sempre più necessario mutare ed adattare alla nuova logica i sistemi di classificazione, prevedendo, all’interno del medesimo livello di inquadramento, figure professionali non molto diverse tra loro. Criticità che altrimenti non consentirebbe il corretto utilizzo della nuova norma e della filosofia con la quale era stata concepita, ovvero restituire una maggiore flessibilità interna all’organizzazione aziendale e ridimensionare la discrezionalità del giudice per una maggiore certezza del diritto, senza però svuotare o pregiudicare un bene prezioso nelle mani del lavoratore, ovvero la sua professionalità.
ADAPT Junior Fellow