Apprendistato di primo livello e grande trasformazione del lavoro. A proposito di un recente studio Eurofound

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Bollettino ADAPT 27 maggio 2019, n. 20

 

Si è tenuto a Roma, lo scorso 21 maggio, il convengo dal titolo “La via italiana al sistema duale”, organizzato da Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Inapp, Anpal, e avente ad oggetto l’analisi e il commento dell’implementazione della c.d. “sperimentazione duale” avviata tre anni orsono: il tentativo di incentivare e promuovere percorsi d’alternanza rafforzata, apprendistato di primo livello, istruzione professionale di qualità, con l’obiettivo di diffondere fenomeni di vera ed efficace integrazione tra scuola e lavoro. Ma quali sono i risultati di questa sperimentazione?

 

I ragazzi coinvolti sono stati quasi 29mila, di cui 3.300 in apprendistato di primo livello. Nel 2017, gli apprendisti iscritti a un percorso di istruzione e formazione secondaria superiore erano, in totale, 6.600: quindi la metà erano coinvolti nella sperimentazione “duale”. Concentrandoci quindi esclusivamente sull’apprendistato di primo livello – peraltro l’unico elemento autenticamente “duale”, dato l’esplicito richiamo operato da questo termine al sistema tedesco d’istruzione e formazione professionale –  i risultati sono scarsi e ancora insufficienti. Dati recenti confermano la sempre minore diffusione del contratto d’apprendistato di primo livello, che rappresenta, nel 2017, il 3,1% del totale dei contratti d’apprendistato in Italia, cannibalizzati dalla diffusione dell’apprendistato di secondo livello o professionalizzante (che di “duale” non ha nulla), che pesa per il 96,7%. Seppur riconoscendo i meriti della sperimentazione, azione indubbiamente necessaria per tentare di promuovere processi di integrazione tra scuola e lavoro, ne vanno anche riconosciuti i limiti. Il convegno sopra richiamato ha visto la partecipazione di politici, esperti di formazione professionale, dirigenti scolastici, ricercatori, che si sono interrogati proprio con l’obiettivo di individuare e superare questi limiti, a partire da diverse angolazioni ma per raggiungere gli stessi risultati: promuovere il ricorso a questi percorsi per favorire l’occupazione giovanile e contrastare dispersione scolastica, contrastare il c.d. skills mismatch, favorire le transizioni scuola-lavoro, promuovere una maggior collaborazione tra imprese e scuole in un’ottica di sviluppo territoriale. Argomentazioni indubbiamente condivisibili, ma altrettanto – almeno guardando i numeri sopra richiamati – inefficaci. La domanda: “perché promuovere l’apprendistato di primo livello?” sembra restare, ancora oggi, senza una risposta convincente.

 

Un recente studio Eurofound, The future of manufacturing in Europe, ci permette di cambiare prospettiva e di provare a dare una risposta a questa domanda. Sembra infatti più efficace inquadrare l’apprendistato non tanto come strumento a disposizione di scuole e imprese per “risolvere un problema” (ad esempio abbandono scolastico, o skills mismatch), quanto piuttosto come esigenza che emerge dalla stessa organizzazione del lavoro nel più ampio contesto della grande trasformazione in atto, capace di tenere assieme processi di sviluppo sia economico, che sociale. Cioè: o l’apprendistato duale torna ad essere non tanto la cura ad una malattia (disoccupazione giovanile in primis), quanto piuttosto uno strumento utile all’organizzazione del lavoro e all’aumento della produttività e dello sviluppo, o altrimenti sarà sempre visto solo come un corpo estraneo: sia dalla scuola, sia dall’impresa. Se infatti scegliamo di promuovere questi percorsi per contrastare disoccupazione e inattività, favorire il placement, rispondere ai bisogni formativi delle imprese, saranno sempre pensati – e concretamente utilizzati – come strumenti la cui ragione non viene ritrovata nel senso del lavoro contemporaneo, o nei nuovi processi e nelle nuove logiche che si stanno diffondendo, quanto piuttosto nel loro essere risposte temporanee a una più o meno percepita necessità. Per meglio comprendere questo “cambio di prospettiva”, è opportuno presentare sinteticamente i risultati dello studio sopra richiamato.

 

Seppur limitato al settore manifatturiero, lo studio Eurofound ci permette di individuare un insieme di linee di tendenza attorno alle quali si stanno strutturando processi di cambiamento che avranno (e che stanno già avendo) significativi effetti sul lavoro: al primo posto c’è sicuramente la diffusione di nuove tecnologie. Robotica avanzata, additive manufacturing, internet of things, veicoli elettrici, biotecnologie industriali: sono queste le cinque tecnologie emergenti capaci di rivoluzionare il mondo manifatturiero. Non è qui opportuno analizzare nel dettaglio gli effetti di ognuna di esse sulle competenze richieste ai lavoratori, è invece utile sottolineare gli effetti che generano sull’organizzazione del lavoro. La separazione e parcellizzazione del lavoro operata dalla rivoluzione industriale tende oggi ad essere superata: non si tratta, infatti, di costruire profili formativi iper specializzati, quanto piuttosto di favorire il giusto equilibrio tra competenze tecniche e capacità di adattamento e di apprendimento continuo, data la rapidità dei processi di mutamento tecnologico sopra richiamati. Ma non è solo la tecnologia a determinare questi cambiamenti, anzi: la grande trasformazione in atto non è riducibile al semplice aumento, quantitativo o qualitativo, delle tecnologie utilizzate in contesti aziendali. I sistemi socio-tecnici vanno pensati assieme ed evolvono e si trasformano di pari passo: per questo abbiamo sopra richiamato la centralità dell’organizzazione del lavoro. È proprio nell’ottica di una gestione congiunta e partecipata dei processi di integrazione tra persone al lavoro e tecnologie industriali che è possibile promuovere produttività e crescita: tenendo assieme “tecniche e persone”. Guardare a queste tecnologie esclusivamente come possibilità di efficientamento dei processi produttivi aziendali può essere quindi, oltre che dannoso, inefficace: dannoso perché i lavoratori vengono (nuovamente) ridotti ad appendici di infrastrutture tecniche, inefficace perché la rivoluzione in atto non chiede tanto nuove tecnologie e una nuova separazione del lavoro, quanto piuttosto processi integrati d’organizzazione e progettazione del lavoro nei nuovi contesti digitali e produttivi. Indubbiamente, permangono limiti e rischi: la diffusione dell’automazione può favorire l’aumento della disoccupazione, e l’amplificarsi della forbice tra lavoratori dotati della professionalità che permette loro di collaborare con le nuove tecnologie, e lavoratori invece sprovvisti di queste competenze e capacità e quindi succubi di un vero e proprio neo-taylorismo.

 

Lo studio realizzato dalla fondazione di Dublino aiuta quindi a rimettere al centro della nostra riflessione il rapporto tra processi d’apprendimento e lavoro. Se vengono pensati come due poli magnetici di carica opposta, da avvicinare con strategie d’integrazione più o meno complesse, scopriremo una forza che li tiene separati e che ne impedisce l’aderenza reciproca. Prima, però, di disperare e riconoscere l’impossibile integrazione tra i due, i poli andrebbero guardati con più attenzione: si scoprirebbe, così, che non si riesce ad avvicinarli perché posseggono la stessa carica, e che non sono mai stati opposti. Apprendimento e lavoro, nel contesto della trasformazione in atto, non sono fenomeni per i quali pensare ed elaborare strategie d’integrazione, perché in realtà, nelle imprese, nelle tecnologie e nelle persone al lavoro, parlano già la stessa lingua: è l’attore pubblico, e spesso anche gli operatori del mercato, che non riconoscono questa coincidenza. La stessa lingua fatta di competenze e ruoli agiti, non astrattamente racchiusi in rigidi profili professionali, di cambiamenti continui e di capacità di adattamento, di innovazione e di sviluppo personale e quindi professionale. Una lingua la cui grammatica ha come prima regola l’imparare a imparare, competenze necessaria per imparare a lavorare, e quindi per essere protagonisti – e non vittime – dei processi di cambiamenti in atto. È in questo contesto, nel contesto di una coincidenza e di un ripensamento del rapporto tra apprendimento e lavoro, che va collocato il ruolo – e il senso – dell’apprendistato di primo livello.

 

L’apprendistato, storicamente, muta e si trasforma al mutare dei processi di produzione e di organizzazione del lavoro, in precisi contesti socio-economici, come ricordato anche dallo studio Eurofound, quando individua le linee di tendenza attorno alle quali sta cambiando l’apprendistato nei diversi Paesi europei. Questa storicità e la logica conseguenza del suo tentativo – immutato nel tempo – di pensare assieme apprendimento e lavoro. Parlare oggi di apprendistato vuol dire collocarsi nell’orizzonte dell’analisi dei mutamenti in atto e della promozione della professionalità dei lavoratori, in questo caso dei giovani – e non tanto, almeno in prima battuta, proporre strategie più o meno complesse per ridurre dispersione scolastica e abbandono, o promuovere la costruzione di profili professionali effettivamente richiesti dalle imprese. Quest’ultima impostazione paga l’adozione, più o meno esplicita, del paradigma novecentesco per il quale il lavoro è un oggetto facilmente individuabile, definito e definitivo, chiaro tassello in un mosaico di sconfinate dimensioni. La complessità trasformativa di oggi, l’impatto delle nuove tecnologie e delle nuove modalità di organizzare la produzione, l’emergere di nuovi lavori e di nuove modalità di lavoro, ci lascia in eredità una sfida: pensare l’apprendistato come elemento imprescindibile di un sistema di organizzazione e gestione del lavoro, nel quale ricopre il ruolo di strumento per favorire non tanto l’acquisizione di “giuste” competenze, ma di formazione attraverso e a un metodo. Metodo capace di tenere assieme teoria e pratica, competenze e abilità, conoscenza e azione: il metodo dell’imparare a imparare, promosso da una vera e propria formazione integrale degli studenti, chiamati a toccare con mano e tenere assieme esperienze formative e lavorative, riscoprendo l’intrinseca – e non sempre esplicita – unità di queste due dimensioni.

 

È questa una sfida che si gioca su più livelli, tra loro collegati: giuridico, politico, economico, sociale, culturale. È la sfida di un mondo che sta cambiando, e non solamente grazie alla diffusione massiva di tecnologie e dei loro usi lavoristici, e che chiede quindi risposte sistemiche e plurali. In quest’orizzonte possiamo collocare l’apprendistato scolastico: nel suo promuovere formazione e lavoro, assieme, promuove allo stesso tempo la professionalità dei giovani, la loro capacità di essere protagonisti del loro futuro – e presente – lavorativo e sociale, evitando la temuta esclusione sociale determinata dall’esclusivo subire l’impatto della tecnica – e dell’organizzazione della tecnica – di oggi. Un apprendistato, quindi autenticamente plurale, non legato a un settore produttivo od esclusivamente al sistema scolastico secondario superiore, ma che può continuare nel tempo, trasformarsi, e promuovere percorsi d’apprendimento continui, favorendo l’acquisizione di titolo di studi anche terziari e lo sviluppo della professionalità dei lavoratori.

 

In conclusione, l’apprendistato di primo livello vedrà un aumento davvero significativo dei suoi numeri solamente quando l’azione coordinata di imprese, scuole, centri di formazione, parti sociali e attori pubblici riconoscerà come imprescindibile ed emergente dalla stessa natura della società 4.0. favorire tutti quei percorsi che permettono di riscoprire l’intrinseco legame tra fare e imparare, così importante nei contesti lavorativi contemporanei: un legame promosso dall’apprendistato, che non si inserisce quindi, da fuori, nell’impresa o nella scuola, che entrambe riscoprono come intrinsecamente fondamentale per lo sviluppo della trasformazione a cui entrambe sono chiamate.

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

Apprendistato di primo livello e grande trasformazione del lavoro. A proposito di un recente studio Eurofound
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