Politically (in)correct – Relazioni industriali in liquidazione

Bollettino ADAPT 29 luglio 2019, n. 29

 

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. È il principio basilare della chimica moderna attribuito ad Antoine-Laurent de Lavoisier, che nel XVIII secolo riprese ed aggiornò le intuizioni di Eraclito secondo il quale è impossibile bagnarsi nella stessa acqua di un fiume (in realtà sarebbe bastato raccoglierne una decina di litri in una bacinella, ma il Moplen non era ancora stato inventato). D’accordo: “polvere sei e polvere diventerai” ammoniscono le Scritture. I morti sono restituiti alla terra con la raccomandazione che essa “sia lieve”. Ma c’è una bella differenza tra un essere ancora in vita e il suo cadavere. L’ho presa da lontano per arrivare a dire – naturalmente è un’opinione discutibile – che a seguito dei recenti incontri delle forze sociali e, in successione, con i due (o tre) governi del Paese – ci si può ingegnare nella scoperta di un nuovo corso delle relazioni industriali e di una ridefinizione del paradigma della rappresentanza: correndo il rischio però che sia il morto a corrompere il vivo.

 

Per farla breve: ad avviso di chi scrive le confederazioni sindacali – eredi di tradizioni gloriose – e le altre (40) parti sociali che – facendo finta di non aver capito la natura della convocazione – si sono presentate al Viminale per discutere di politica economica col ministro degli Interni, le stesse che pochi giorni dopo si sono recate a Palazzo Chigi per una “sveltina” di quindici minuti a testa, hanno dato un determinante contributo al logoramento delle istituzioni in atto. In sostanza, hanno nei fatti legittimato – loro che rappresentano milioni di donne e di uomini –  assetti di potere suddivisi per bande organizzate, dove non ci sono solo lottizzazioni e zone franche, ma è in corso un Risiko ininterrotto a sottrarsi le competenze e a sconfessare i ruoli altrui per occuparne le posizioni e le prerogative.

 

Sull’ultimo numero del Bollettino, Francesco Nespoli ha ricostruito accuratamente i contorni politici della vicenda. Per Salvini – sostiene Nespoli- l’obiettivo era quello di imporsi come referente politico, incamerando quel successo delle elezioni europee che non ha però espressione in parlamento e ha quindi bisogno di una continua sollecitazione dell’opinione pubblica. L’intento di Salvini non era poi solo quello di fare un’incursione clandestina nel territorio dell’ormai junior partner Di Maio. Se con la Lega i sindacati hanno poco da spartire in termini ideologici, molto di condiviso hanno in termini di rappresentati – è questa la verità scomoda (ndr) – se è vero che, come ha stimato un sondaggio IPSOS, più del 26% di iscritti a un sindacato ha votato per la Lega alle elezioni europee dello scorso maggio. Salvini mirava così anche a consolidare un elettorato, riconoscendolo, oltre che a intavolare il rapporto con la rappresentanza delle imprese. Se allora la natura politica e non istituzionale dell’incontro era chiara – incalza Nespoli –  perché le parti sociali, o quanto meno i sindacati, non si sono accordati per rifiutare l’invito, rivendicando la volontà di essere coinvolti in una sede istituzionale più appropriata e seria?  La mossa – secondo Nespoli – avrebbe dato adito ad accuse di remissività da parte della politica e comunque si sarebbe trattato di un messaggio molto difficile da comunicare alla base.

 

Se non ho compreso male la tesi del giovane e valente studioso di comunicazione, accettare l’invito irrituale del ministro degli Interni è stato un atto di bon ton di attenzione nei confronti di chi comanda davvero, al punto da poter mettere in campo una “quinta colonna” all’interno dei sindacati. Allora, perché, Maurizio Landini –facendo uno sforzo tremendo per rimanere serio – ha sentito il bisogno di giustificarsi pubblicamente per aver partecipato a quell’incontro, sostenendo che lo riteneva un’iniziativa del governo ancorché “fuori sacco”? Una risposta a questa domanda la fornisce, in una ricostruzione su Il Diario del Lavoro, Nunzia Penelope, un’analista (una delle ultime perché l’importanza dell’argomento ha subito un significativo ridimensionamento) molto fine e aggiornata su quanto accade nel mondo dei sindacati.

 

“La risposta – scrive Nunzia – è nella storia del sindacato stesso: la richiesta di incontro da parte di un rappresentante del governo si è sempre accettata, non fosse che per rispetto delle istituzioni, esattamente come è sempre andati a trattare con qualunque ‘padrone’, a prescindere se sia simpatico o meno. Se poi il ministro Salvini parla di economia, scavalcando i colleghi competenti, non è un problema delle parti sociali, ma del governo. E se pure, una volta arrivati al Viminale, si scopre che la riunione è più di partito, e nello specifico della Lega, che di governo, non si va comunque via, ma si resta fino alla fine, perché chi lascia il tavolo di un confronto, lo sanno bene i sindacalisti, ha sempre torto”.

 

A me non sembra che sia questa la verità dei fatti. Innanzi tutto, dove sta il rispetto delle istituzioni, quando il primo a non averne per nulla è proprio il “padrone di casa” che con quella iniziativa al Viminale ha dimostrato che dei riti della democrazia (che è fatta anche di regole formali e di protocollo) non gliene può fregar di meno? Ma Penelope non si dà per vinta. “È proprio l’appuntamento di lunedì scorso – aggiunge – che ha portato come conseguenza l’improvviso “risveglio” di Conte, dopo che le parti sociali da due settimane attendevano invano un segnale da Palazzo Chigi, impegnatosi a convocare una serie di tavoli di confronto, fin qui mai visti. Sull’ ‘effetto sveglia’ ha poi sicuramente giocato anche l’intenzione dichiarata da Salvini di ripetere l’adunanza al Viminale il 6 e 7 agosto: Farsi battere per la seconda volta sul tempo, si sarà detto Conte, proprio no. I sindacati, in questa partita, si sono forse mossi un po’ come insegna la vecchia tattica del liceo: se il ragazzo che mi piace non mi chiama, esco con un altro, così il primo s’ingelosisce e si dà una mossa. Tattica adolescenziale o meno, sta di fatto che, nel giro di qualche giorno, da Cenerentole che nessuno considerava, i sindacati si sono trasformati nella scarpetta di cristallo che tutti vogliono provare a calzare (chissà che numero porta Landini? Ndr)”.

 

È questo il nuovo modello delle relazioni industriali? Tre governi, tre incontri separati, nessun risultato? Si parla a nuora perché suocera intenda? In preda alla gelosia, dopo i giri di valzer con Salvini (pensate a quanta fatica è occorsa al Capitano per far roteare nella sala ben 43 persone una dopo l’altra) Giuseppe Conte si è precipitato a convocare i leader sindacali concedendo loro ben 45 minuti, 15 per ogni sigla. E pensare che si tratta di persone abituate a parlare per tutto quel tempo soltanto per dire buongiorno ed ordinare al bar un cappuccino accompagnato dal solito cornetto. Ecco perché con un po’ di malizia i 15 minuti concessi da Conte mi hanno riportato – con un volo pindarico – ai tempi della prima giovinezza. Nel 1958, quando entrò in vigore la legge Merlin (che il Capitano vorrebbe abrogare), io avevo 17 anni. Riuscii pertanto ad evitare – al compimento del 18° anno – la cerimonia d’iniziazione sessuale (allora “percepita” come obbligatoria) da consumare in una casa di tolleranza. In precedenza avevo sentito gli amici più grandi di me raccontare, nelle serate trascorse nella sala biliardo sotto casa, di quelle esperienze (tecnicamente definite “marchette”) che, in via ordinaria (intese preliminari sulla tipologia della prestazione ed abluzioni igieniche comprese), duravano al massimo una quindicina di minuti. Lo stesso tempo che il premier Giuseppe Conte ha concesso (in tutto dalle 16 alle 16,45 del “giorno della gloria”) a ciascuno dei leader di Cgil, Cisl e Uil per discutere dei problemi del paese.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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