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Bollettino ADAPT 2 settembre 2019, n. 30
Per le Università, in tutto il mondo, la cooptazione funziona meglio dei concorsi pubblici. È questa la sostanza dell’intervento di Dario Braga su Il Sole 24 Ore dello scorso 6 agosto. Un intervento che ha il merito di spiegare alcune delle buone ragioni che suggeriscono, per il reclutamento dei docenti universitari, l’adozione di logiche di libertà e responsabilità da parte degli Atenei e degli stessi professori. Meglio questo sistema, pur con tutti i suoi limiti, che il ricorso a procedure burocratiche complesse. Quale che sia il meccanismo prescelto dal legislatore, in sede di applicazione pratica i concorsi non hanno del resto mai posto argine ad abusi e condotte poco trasparenti. Insomma, che il nome del probabile vincitore sia già noto prima della pubblicazione del bando di concorso non risponde, di regola, a logiche truffaldine o malaffare, quanto alla delicatezza e peculiarità del lavoro di ricerca scientifica che deve rispondere alle effettive esigenze di ogni singola sede universitaria e dello specifico gruppo di ricerca a cui il vincitore dovrà aggregarsi.
Il ragionamento di Braga, se letto nella prospettiva della tradizione, ha dalla sua parte non solo buoni argomenti ma anche numerosi dati di esperienza comprensibili solo a chi vive dall’interno l’Università. Credo tuttavia che il corpo docente, al quale appartengo, debba oggi ripensare con maggiore senso critico questo radicato e motivato sentire. Non tanto per la quantità di scandali e abusi che sembrano periodicamente ricordarci come, almeno nel nostro Paese, la libertà non sempre proceda di pari passo con la responsabilità delle scelte e dei comportamenti. Il punto, semmai, è un altro e va oltre l’etica perché investe, più in profondità, il ruolo della ricerca e della alta formazione universitaria nella società moderna. Perché i meccanismi di cooptazione possono funzionare, più o meno egregiamente, rispetto a una visione del sistema universitario come mondo chiuso che al più – e non certo per vocazione – si esercita di tanto in tanto (e con atteggiamento di superiorità) con le sfide poste dalla cosiddetta “terza missione”. Come se l’apertura al territorio e alla società fossero qualcosa di profondamente estraneo rispetto alle due missioni storiche, la formazione degli studenti e la ricerca, ancora custodite con gelosia e, spesso, con criteri autoreferenziali che bene spiegano la scarsa occupabilità dei nostri laureati e il difficile dialogo tra ricerca accademica e ricerca industriale. Perché la verità è che, tanto nei meccanismi di cooptazione quanto in quelli dei concorsi pubblici, la capacità di insegnare e anche educare i nostri ragazzi non è mai presa in considerazione. Mentre la ricerca scientifica è ancora vista, in alcune materie più di altre, come un percorso individuale da svolgersi dentro un preciso recinto disciplinare che nel mondo reale tuttavia non esiste. Si scrive e si pubblica in funzione delle abilitazioni e dei percorsi di carriera e non per alimentare il “fuoco sacro” di chi nella ricerca vede una missione per migliorare la società e anche la vita delle persone.
Pensiamo, per fare un esempio, ai meccanismi di selezione dei giovani ricercatori attraverso i dottorati. Poco e nessun interesse hanno sin qui suscitato i percorsi di dottorato industriale e quelli in apprendistato di alta formazione dove il nome del futuro vincitore, in questo caso per espressa previsione di legge (c.d. Decreto Profumo), è già noto ai commissari del concorso. Percorsi che, tuttavia, non scaldano il cuore del corpo docente perché non destinati ad auto-alimentare la specie, quella del ricercatore accademico puro. Da qui la pressione sul sistema universitario dove solo una ristretta minoranza degli oltre 10mila dottori di ricerca che escono ogni anno dai nostri Atenei potrà avere accesso mediante il meccanismo del “concorso per cooptazione” senza però aver contestualmente maturato competenze e professionalità spendibili nel mercato del lavoro non accademico. Perché il problema resta, in Italia, quello della assenza di un vero e proprio mercato aperto e intersettoriale del lavoro di ricerca. Che è poi la vera ragione del localismo, della scarsa mobilità dei ricercatori, di una didattica antiquata e del difficile dialogo con il sistema produttivo. La verità è che solo da noi il termine ricercatore coincide con lo status giuridico di chi lavora dentro le Università. Si tratta di una visione lontana dalla realtà, così come documentata dalla storia della innovazione e dello stesso apprendistato. Anche per questo motivo è strategico dare avvio, nella stagione della open innovation e della disruptive technology, a un mercato del lavoro di ricerca non accademico incentrato su moderni percorsi di selezione e carriera funzionali alle esigenze della intera società e non del solo corpo accademico.
Ciò detto, se davvero la posizione da difendere è quella di garantire nel rispetto della tradizione una reale autonomia ed effettiva responsabilità di Atenei e docenti, allora il passo da compiere è un altro e ben più radicale: quello della abolizione del valore legale dei titoli di studio. Sono i tempi a rendere oggi ineludibile questo cambio di paradigma perché in gioco non è solo la trasparenza dei meccanismi di reclutamento dei professori ma, più a fondo, la modernizzazione del Paese che non può non partire dalle Università e dai criteri di formazione e selezione di chi fa innovazione e ricerca. E questo perché, all’epoca della Quarta rivoluzione industriale, la competizione internazionale sarà sempre più una sfida tra i diversi sistemi educativi e della ricerca che saremo in grado di affrontare solo abbandonando la vecchia e falsa idea che il valore legale del titolo sia garanzia dell’ideale egualitario.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
*pubblicato anche su ll Sole 24 Ore, 15 agosto 2019