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Bollettino ADAPT 21 ottobre 2019, n. 37
Volgendo lo sguardo a ciò che avviene nei fori italiani, si può giungere a una certa contezza di come il nostro “sistema lavoro” e tutti gli attori in esso coinvolti siano invischiati, sempre più di frequente, in drammatiche logiche di mercato improntate al “massimo ribasso”.
Invero, a giustificare la crescente attenzione, anche politica, verso temi quali il c.d. dumping contrattuale, assurgono preoccupanti vicende, come quella giudicata dal Tribunale di Torino con sentenza n. 1128/2019, in materia di “giusta retribuzione” ex art. 36 Cost..
Prima di addentrarsi nello sconfortante merito della questione, è utile sintetizzare i complessi quanto concreti approdi raggiunti in materia dalla giurisprudenza e che, in assenza di chiari riferimenti normativi – tutt’ora indisponibili causa le insite contraddizioni dell’art. 39 Cost., a seconda della tesi propugnata, baluardo o capro espiatorio di questo (libertà sindacale) o quell’altro (efficacia erga omnes dei contratti) principio ineludibile – hanno garantito, nel tempo, il diritto effettivo dei lavoratori a vedersi riconoscere una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità della prestazione resa.
A ben vedere, pur riconducendo la contrattazione collettiva alle regole civilistiche, motivandone la qualificazione a negozi giuridici di diritto comune e limitandone così il potere di applicazione1 (per associazione, adesione esplicita o implicita), la magistratura ne ha costantemente riconosciuto il ruolo di “fonte” più idonea a recepire le dinamiche retributive di settore, individuando fra le sue determinazioni economiche, in quanto rispondenti al principio di prossimità all’interesse oggetto di tutela, quegli istituti costituenti, a fini parametrici, il cosiddetto “minimo costituzionale”2.
Alla necessità di concretizzare questo alto principio espresso dalla Carta, è poi conseguita la reviviscenza, anche nell’ordinamento post-corporativo, di norme quali l’art. 2070 c.c. che, confidando nella capacità dell’azione intersindacale di definire idonei perimetri professionali (sfera di applicazione) dove esercitare la propria azione, sancisce quel vincolo di coerenza tale per cui “nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo…di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dell’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex articolo 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale…”3.
E anche in situazioni di ambiguità giuridicamente più articolata (come ad esempio le vicissitudini del comparto assicurativo, dove l’organizzazione datoriale presuntivamente più rappresentativa di settore (Sna) e OO.SS. giudicate materialmente inconsistenti4 (Confsal Fesica e Fisals) sono firmatari di un nuovo e decisamente meno oneroso C.C.N.L.) i giudici aditi hanno sempre e comunque trovato soluzione, rifacendosi agli accordi collettivi dei sindacati c.d. comparativamente più rappresentativi, ritenendo il frutto delle loro trattative conformi ai requisiti, costituzionali, di proporzionalità e sufficienza5.
Di modo che, pur nell’evanescenza normativa del concetto di “rappresentatività”, la scorciatoia offerta dal raffronto fra la retribuzione oggetto di analisi e i minimi individuati negli accordi delle organizzazioni confederali storiche (CGIL, CISL e UIL), ha da sempre costituito per la magistratura un porto sicuro, una stella polare in grado di offrire elementi di oggettiva garanzia.
E di fatti, già in origine l’art. 2099 c.c., con il suo preponderante rifarsi all’autonomia collettiva (corporativa), tendeva a evidenziare il ruolo prioritario delle parti sociali quali “autorità salariali”, ruolo tutt’ora confermato dalla medesima norma, ancorché depurata, ove il riferimento alle modalità e i termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito, può legittimamente condurre il giudicante a quelle tariffe salariali “…indici di una situazione di mercato sulla quale ha opportunamente influito l’intervento moderatore delle contrapposto organizzazioni…”6 e, fra queste, quelle più rappresentative poiché “…se la rappresentatività ha – come certamente ha – un senso nel dare garanzia di equilibrato confronto e raccordo di interessi contrapposti, là dove vi sia una pluralità di contratti collettivi la rappresentatività comparativamente maggiore sarà verosimilmente garanzia di un più attendibile indice dell’equa retribuzione”7.
Ora, esaminando la pronuncia torinese, emergono con chiarezza le nuove difficoltà, giuridiche e di contesto, con cui la giustizia del lavoro è chiamata a confrontarsi e che gravano lo sforzo di assicurare il diritto a una retribuzione dignitosa.
Per quel che rileva, a seguito di cambio appalto inerente il servizio di portierato presso uno stabile, un lavoratore veniva assunto ex novo – ma senza soluzione di continuità – dalla cooperativa subentrante, la quale tuttavia, a differenza del precedente datore, applicava al rapporto di lavoro la cornice economico/normativa definita dal C.C.N.L. Vigilanza privata – Sezione Servizi Fiduciari.
Il dipendete ricorreva in giudizio lamentando che, a parità di orario (40 ore settimanali) e mansioni svolte (receptionist), la retribuzione conseguente al novello inquadramento risultava inferiore del 30.24% rispetto al C.C.N.L. Multiservizi precedentemente utilizzato, ma anche deteriore, rispettivamente del 27.16 % e del 36.24%, in confronto al C.C.N.L. Proprietari di fabbricati ovvero al C.C.N.L. Terziario, distribuzione e servizi, accordi consuetamente utilizzati nel settore.
In aggiunta, il lavoratore evidenziava che il valore netto del trattamento economico denunciato, si trovava ben al di sotto del tasso-soglia di povertà assoluta individuato dall’ISTAT e che dunque quanto ricevuto non poteva ritenersi rispettoso del precetto costituzionale di cui all’articolo 36.
Tenuto conto del premesso excursus giurisprudenziale, è interessante analizzare la posizione della società convenuta che, in estrema sintesi, respingeva ogni accusa in ragione delle “qualità” del nuovo accordo sulla base dei seguenti presupposti:
- la sfera di applicazione contrattuale era coerente con l’attività effettivamente esercitata;
- la scelta era vincolata dall’iscrizione aziendale all’UNIV, organizzazione datoriale firmataria;
- Il C.C.N.L. era comunque sottoscritto da SS. comparativamente più rappresentative, Fisascat-CISL e Filcams-CGIL, non potendo dunque essere qualificato come “contratto pirata”.
A questo punto, a fronte della opposta correttezza formale, l’organo giudicante spinge il proprio operato in valutazione tanto approfondite quanto avanguardistiche e che partono da un punto, sul quale la sentenza intende fare chiarezza.
Invero, il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui le previsioni collettive, ancorché definite da soggetti dotati di rappresentatività, sono idonee ad assicurare la conformità al principio costituzionale della “giusta retribuzione”, agisce esclusivamente a livello di presunzione, essendo che “…la proporzionalità e la sufficienza a cui fa riferimento la norma…sono concetti autonomi e ben distinti dalla volontà delle parti sociali…”.
Per tali ragioni, non può affatto escludersi che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur rispettoso dell’art. 7 c. 4 D.L.gs. 248/2007 applicabile al rapporto giudicato, possa risultare, in concreto, lesivo dei diritti del lavoratore.
Ed effettivamente, seguendo l’iter motivazionale, “…il fatto che i rappresentanti delle medesime organizzazioni sindacali, nell’ambito di vari altri contratti collettivi, abbiano stimato proporzionata alla stessa quantità e qualità della prestazione una retribuzione sensibilmente superiore…grava la retribuzione in questione della presunzione uguale e contraria…”.
Presunzione che, nel caso di specie, nemmeno può essere vinta dalle ragioni che rimango esterne e preliminari alle trattative, motivazioni cioè afferenti il contesto socio economico e alle esigenze di tutela del lavoratore sotto profili diversi da quello strettamente retributivo, come, a esempio, l’occupazione.
Infatti, e questo davvero sconcerta, l’unico fine emerso dalle articolate informative sindacali avviate dal giudice del merito, è quello rinvenibile da alcuni estratti delle dichiarazione rese dai protagonisti, parte datoriale, della trattativa – peraltro non contraddette, nella sostanza, dagli omologhi dei lavoratori – e che ben rendono l’idea del reale movente alla base del negoziato:
“La decisione di normare appositamente…nacque dalla constatazione che il settore si era notevolmente a partire dal 2006 in poi per l’esternalizzazione dei servizi in questione…con il crollo delle tariffe corrisposte dai committenti alle imprese che fornivano tali servizi…Il problema che ponemmo al sindacato e che una parte di esso (eccetto UIL) recepì fu quello di fare una sezione che venisse effettivamente applicata dalle aziende e ciò esigeva retribuzioni che fossero compatibili con i prezzi di mercato pagati dalle imprese committenti…”, “…Non c’è stata comunque una grande lotta, il profilo retributivo non ci ha tenuto in ballo per molto tempo…”
Ora, la giusta condanna a risarcire con cui si è conclusa la vicenda, non deve distrarre dalla preoccupante realtà in essa disvelata ossia il tangibile pericolo che, anche soggetti dotati di ogni crisma di rappresentatività, anziché agire in difesa dei salari (lato sensu) dalle pandemiche tendenze, frutto di logiche di reificazione del lavoro, di “massimo ribasso” del costo, finiscano invece per esservi risucchiati e, addirittura, farne propri i presupposti.
Pertanto, stante l’esistenza di concertazioni altrettanto dubbie e comunque non dissimili da quella in oggetto8 * e in attesa di comprendere le reali sembianze di un eventuale salario minimo di fonte legale, si deve comprendere appieno il “peso” del compito assegnato alla magistratura che, nell’attuale ordinamento, a tutela del mercato e del lavoro, assurge al ruolo di unica e indipendente forza a garanzia dell’intero sistema e concretamente, assicurare quel diritto costituzionale alla persona9, in entrambi i suoi complementari criteri (proporzionalità e sufficienza) e, dove necessario, utilizzando parametri diversi – dai contratti collettivi – quali equità, tipo e natura dell’attività svolta, il raffronto con situazioni analoghe, le condizioni di mercato, il potere d’acquisto10 o le condizioni personali familiari del lavoratore11.
Federico Avanzi
Consulente del lavoro
*Ci si riferisce al protocollo di adesione sottoscritto dalla triplice con UNIREC e che, per inciso, mi sta impegnando in contenzioso (ancora stragiudiziale). Nel commentario si evidenziano possibili incompatibilità con l’art. 36 Cost.
1 Sezioni Unite Civili n. 2665 del 1997
2 Cassazione Sez. Lavoro n. 20452/2018
3 Cassazione Sez. Lavoro n. 24160/2015
4 Tribunale di Genova Sez. Lavoro n. 1064/2018
5 Corte Costituzionale n. 51/2015
6 Cassazione n. 1184 del 12 maggio 1951
7 Tribunale di Trieste Sez. Lavoro n. 48/2009
8 M. Tiraboschi, P. Rausei (a cura di), Commentario sistematico del Ccnl per i dipendenti degli studi professionali – 3 Il CCNL Studi professionali come punto d’approdo per il comparto del recupero crediti stragiudiziale, ADAPT University Press 2014
9 Cassazione n. 461 del 21 febbraio 1952
10 Cassazione Sez. Lavoro n. 10260/2001
11 Cassazione Sez. Lavoro n. 7383/1996