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Bollettino ADAPT 2 dicembre 2019, n. 43
Dopo l’annuncio il silenzio. Eppure la proposta di un «Patto per la ricerca», avanzata nei giorni scorsi dal Ministro Fioramonti a imprese e istituzioni pubbliche e private, non può che essere accolta positivamente da chi conosce il difficile rapporto tra ricerca e mercato del lavoro in Italia. In un momento storico in cui tanto si parla di innovazione e della necessità di nuovi investimenti strategici per posizionare le imprese italiane ai più alti livelli delle catene globali del valore, il tema della qualità del capitale umano dovrebbe essere al centro non solo del dibattito ma anche della azione politica. Politiche non solo della formazione, ancora anacronistiche perché calibrate su società ed economia del Novecento, ma anche e soprattutto del lavoro in grado di avvicinare i giovani con attitudini alla ricerca (che non mancano) al sistema delle imprese.
In Italia abbiamo solo 5 ricercatori ogni mille occupati, la metà di Giappone e Usa e un terzo della Corea del Sud. Ma questo dato di fatto non è imputabile alla assenza di ricercatori o di persone interessate a fare ricerca. Questi esistono, eccome. Solo che spesso sono costretti a rinunciare alla propria vocazione o a ripiegare all’estero per le difficoltà di inserimento nel sistema della ricerca che non può essere limitato al solo settore pubblico e tanto meno al solo sistema universitario. Le cause sono molteplici, ma certo pesa non poco una visione della ricerca che fatica a svincolare la carriera di scienziati, progettisti e ricercatori da una dimensione puramente accademica. Dimensione che non è in alcun modo in grado di assorbire il numero di persone che forma nella fase iniziale e tanto meno di creare un vero e proprio mercato del lavoro di ricerca modernamente inteso. Se pensiamo solo ai dottorati, su circa 2.000 all’anno che ottengono il titolo, non più di 200, e solo dopo molti anni di precariato, riescono a strutturarsi in università. A fronte di questi dati il sistema delle imprese italiane fatica ad accettare le peculiarità dei ricercatori, prevalentemente formati per (e desiderosi di) una carriera accademica. Non manca una ricerca sommersa e importante anche nel sistema privato, ma i ricercatori aziendali non hanno alcun riconoscimento del loro status e l’intero sistema normativo che regola il loro rapporto di lavoro resta ancora del tutto analogo a quello vigente per impiegati e quadri. Al palo restano i dottorati industriali e soprattutto il potente strumento dell’apprendistato di alta formazione e ricerca la cui progettazione risale ai tempi della legge Biagi (2003).
Per tutti questi motivi proporre un «Patto per la ricerca» è un segnale importante, ma occorre fare attenzione. Non più di sei anni fa le imprese e il Consiglio Nazionale delle Ricerche hanno stretto un analogo patto del quale oggi poco si sa, tanto che quasi a nessuno è tornato in mente all’annuncio della nuova iniziativa. Il monitoraggio e l’implementazione di questi lodevoli tentativi è la prima azione da intraprendere per evitare che tutto muoia quando cambiano (e capita frequentemente) i soggetti che ci hanno creduto personalmente. L’esempio da seguire potrebbe essere quello tedesco dove un patto simile è stato avviato con successo nel 2005, e più volte rinnovato, a fronte di una costante attività di monitoraggio e controllo degli esiti (vedi P. Bertuletti, Patto per la ricerca. Inseguendo l’Europa, in Bollettino ADAPT n. 38/2019).
Sullo sfondo resta comunque un nodo culturale di fondo che va sciolto e cioè quello della costruzione di un vero e proprio sistema normativo e istituzionale della ricerca privata di pari dignità rispetto a quello pubblico già esistente (ne ho parlato diffusamente in vedi M. Tiraboschi, E.M. Impoco, La ricerca ai tempi delle economie di rete e di Industry 4.0, Giuffrè Editore, 2016). Si tratta, in altri termini, di costruire e incentivare un ecosistema della ricerca, funzionale alla mobilità intersettoriale dei ricercatori all’interno della area europea per la ricerca e alla collaborazione pubblico-privato, che tenga conto delle competenze professionali necessarie così come delle dinamiche di raccordo tra impresa e università nei territori in cui vengono avviati i processi di innovazione. Un ecosistema animato da veri e propri hub o distretti della conoscenza (che in parte già ci sono a partire dalla storica esperienza dei parchi scientifici e tecnologici e dai nuovi competence center) ad alta densità di relazioni globali e capitale umano, come bene indica chi studia la nuova geografia del lavoro e i relativi fenomeni di aggregazione per disporre di sufficiente massa critica a fronte di percorsi di ricerca ancora incentrati su carriere individuali. Bene un patto tra pubblico e privato, insomma, ma per funzionare questo patto deve basarsi su condizioni di pari dignità e non riproporre il vecchio schema di una presunta superiorità del sistema universitario che, se mai è esistito, oggi è spazzato via dalle logiche destrutturanti della open e della social innovation proprie della IV rivoluzione industriale.
Coordinatore scientifico ADAPT
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2019