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Bollettino ADAPT 10 febbraio 2020, n. 6
Con ordinanza n. 214 del 18 aprile 2019 il Tribunale di Bari rimetteva alla Consulta una questione concernente la legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 (c.d. Jobs Act) nella parte in cui prevede, in capo al lavoratore che abbia subito un licenziamento viziato da irregolarità derivanti dalla violazione del vincolo di motivazione di cui all’art. 2, comma 2 della l. n. 604 del 1966 o della procedura prevista all’art. 7 della legge n. 300 del 1970, il diritto ad un’indennità “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio“. Più di recente anche il Tribunale di Roma, con ordinanza del 3 gennaio 2020, ha sollevato una questione analoga in riferimento alla medesima disposizione.
Il procedimento ordinario dinanzi al Tribunale barese era stato promosso da una lavoratrice che pretendeva l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatole dal datore di lavoro. Il giudice di prime cure, pur rilevando la validità e legittimità del licenziamento dal punto di vista sostanziale, accoglieva la questione a lui devoluta circa la sussistenza della violazione dell’obbligo di preventiva contestazione dell’addebito alla lavoratrice. Tale obbligo è infatti imposto al datore di lavoro dall’art. 7 St. Lav. (legge n. 300/1970), pena la corresponsione dell’indennità quantificabile ai sensi dell’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015. L’onere di contestazione viene poi specificato ed integrato dall’art. 138, comma 3 del CCNL Turismo Confcommercio il quale, applicabile al caso di specie, contribuisce a definirne i contenuti in misura ancor più stringente attraverso la disposizione della necessità di comunicare alla lavoratrice la sua facoltà di rendere giustificazioni nel termine di cinque o più giorni. Tale era, puntualmente, l’obbligo cui il datore non aveva adempiuto. Il Tribunale di Bari dunque, ritenendo applicabile la fattispecie prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015, accertava la responsabilità in capo al datore di lavoro per la scorretta comunicazione dell’addebito; tuttavia, rimetteva alla Corte costituzionale la questione avente ad oggetto il criterio di quantificazione dell’indennizzo che la medesima norma dispone. In particolare, il giudice rimettente constatava l’opportunità di assoggettare il computo dell’indennizzo non già al citato art. 4, che prevede il criterio rigido e predeterminato dell’anzianità di servizio, bensì ai parametri ravvisabili nell’art. 8 della legge n. 604 del 1966 e nell’art. 18, comma 6 St. Lav. (il quale fa riferimento al comma 5 dello stesso articolo) che disegnano un regime più favorevole alla lavoratrice, stante la previsione in queste disposizioni di ulteriori e più flessibili principi cui ricollegare la quantificazione, quali il “numero di dipendenti occupati“, le “dimensioni dell’attività economica“, il “comportamento e le condizioni delle parti“, posti in relazione con la “gravità della violazione formale o procedurale posta in essere dal datore di lavoro“.
Le motivazioni addotte a fondamento della questione di legittimità muovono dal riferimento, quasi pedissequo, ad una nota pronuncia della Corte Costituzionale (trattasi della sentenza n. 194 del 2018), che ha dichiarato l’illegittimità del primo comma dell’art. 3 del d.lgs. 23/2015, proprio in riferimento alla parte in cui stabiliva il criterio per il calcolo dell’indennità dovuta al lavoratore in caso di licenziamento intervenuto in assenza di giusta causa o giustificato motivo, ancorandolo al solo parametro rigido ed oggettivo dell’anzianità, in tal modo conferendogli il carattere di una “liquidazione legale forfetizzata e standardizzata“. A detta del giudice rimettente le ragioni che hanno comportato la declaratoria di incostituzionalità parziale dell’art. 3 si traslerebbero anche all’art. 4. Circostanza questa che sarebbe confermata dalla pressoché totale uniformità del dato letterale delle due disposizioni nella parte già dichiarata incostituzionale nell’una, ed attualmente oggetto di impugnazione nell’altra. Il Tribunale di Bari dunque, a supporto delle proprie argomentazioni, enuncia i motivi che la sentenza n. 194 del 2018 riportava nel dichiarare l’incostituzionalità del primo comma dell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015. Tale disposizione si poneva anzitutto in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., nella prospettiva in cui la correlazione dell’ammontare dell’indennizzo al solo criterio di anzianità determina “l’ingiustificata omologazione di situazioni diverse“, la cui valutazione richiede la considerazione di ulteriori elementi che consentano una “personalizzazione” dell’indennizzo. Veniva in tal senso valorizzato l’esercizio della discrezionalità del giudice nella quantificazione, condizione necessaria all’apprezzamento della diversità delle situazioni passibili di rifusione.
Si dichiarava poi leso il principio di ragionevolezza, poiché l’ammontare dell’indennizzo non risultava idoneo ad offrire un adeguato ristoro al lavoratore licenziato soprattutto, come del resto è nel caso di specie, ove questi non goda di un’anzianità elevata ai fini della quantificazione. Nonostante l’obbligazione prevista dall’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 sia qualificata come “indennità” (come anche nell’art. 4), non si deve dubitare del suo carattere risarcitorio, a fronte della natura di fatto illecito del licenziamento, derivante dalla violazione di una norma imperativa (infatti, l’art. 1 della legge n. 604 del 1966 dispone che “il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del Codice civile o per giustificato motivo“). Il risarcimento, infatti, pur non richiedendo l’integrale riparazione del pregiudizio subito, esige il carattere dell’equità nella sua commisurazione.
Sul versante del datore di lavoro il difetto di ragionevolezza del metodo di computo rilevava poi per il suo carattere scarsamente dissuasivo in ordine al ricorso al licenziamento. Il meccanismo automatico di calcolo cui l’indennizzo è sottoposto implicava, proprio in ragione della ridotta ispirazione riparatorio-compensativa della sua commisurazione, anche la mancanza della funzione deterrente rispetto alla volontà del datore di lavoro di licenziare. Le criticità collegate all’automaticità del calcolo dell’indennizzo comportavano poi la lesione del diritto al lavoro ex artt. 4, comma 1 e 35, comma 1 Cost. L’inadeguatezza del ristoro dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo e l’assenza di carattere dissuasivo nei confronti del datore di lavoro implicano la compressione dell’interesse costituzionalmente tutelato alla conservazione del posto di lavoro. Interesse che assume, anche in considerazione della portata della menzione dell’art. 1 Cost., un rilievo centrale nel complessivo assetto costituzionale.
Il giudice barese prosegue sostenendo come anche il licenziamento per motivi formali o procedurali possieda “diverse gradazioni di gravità” e produca “pregiudizi differenziati in base alle condizioni delle parti, all’anzianità del lavoratore, alle dimensioni dell’azienda“. In più precisa come “la minore gravità dei vizi procedurali rispetto a quelli sostanziali” non possa di per sé escludere l’applicazione dei motivi di illegittimità già riscontrati dalla Corte in relazione all’art. 3 anche nei confronti dell’art. 4, dal momento che il giudizio verte non già sulla “misura dell’indennità” o sui “limiti minimi o massimi della stessa“, bensì sul “meccanismo automatico di calcolo“. Non verrebbe in tal senso garantita adeguata copertura legislativa all’interesse del lavoratore ad essere licenziato “all’esito di un regolare procedimento disciplinare, o comunque in virtù di un provvedimento chiaro, espresso, specifico, motivato“, che costituisce un’espressione della tutela che la Costituzione accorda al diritto al lavoro.
L’ordinanza di rimessione contiene, infine, un ulteriore ed autonomo motivo di impugnazione, rappresentato dalla pretesa violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. Viene, infatti, precisato come si debba ritenere, sulla scorta di consolidata giurisprudenza sia della Corte costituzionale che della Corte di Cassazione, che tale principio non debba trovare applicazione solo in relazione ai procedimenti giurisdizionali ma anche, seppur in maniera più attenuata, a quelli disciplinari, in ragione della “natura sanzionatoria delle pene disciplinari, che sono destinate ad incidere sullo stato della persona nell’impiego o nella professione“(Corte Cost. n. 505/1995). La questione è così rimessa alla Consulta, la quale dovrà valutare se anche l’interesse tutelato dall’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 richieda il calcolo della relativa indennità in base a criteri non automaticamente collegati all’anzianità. L’argomentazione del giudice rimettente si limita in verità a sostenere l’opportunità della trasposizione delle argomentazioni che hanno portato alla declaratoria di incostituzionalità parziale della sentenza n. 194 del 2018 al nuovo contesto, senza esporre ulteriori ragioni che il diverso diritto, oggetto del nuovo giudizio della Corte, possibilmente richiederebbe.
Constatata l’indubbia omogeneità del criterio di calcolo infatti, una ragione che potrebbe ostare all’accoglimento della questione risiede proprio nella diversità dei diritti oggetto di considerazione negli artt. 3 e 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, laddove il primo contempla il diritto al lavoro nella sua effettività, mentre il secondo lo implica solo indirettamente, rivolgendosi in prima analisi alle garanzie procedurali atte a consentire al lavoratore l’adeguatezza informativa in vista dell’instaurazione di un contraddittorio prima del giudizio, che ha contenuto strumentale rispetto ai diritti riconosciuti ex artt. 4 e 35 Cost. Questa dimensione viene colta dall’indicazione dell’art. 24 Cost. come parametro di costituzionalità, che rappresenta l’unica novità nell’argomentazione del giudice rimettente.
Qualche utile considerazione si può a tal proposito evincere dalla già richiamata ordinanza del Tribunale di Roma datata 3 gennaio 2020, che scaturisce da una causa del tutto assimilabile a quella descritta, sia in punto di fatto che di diritto applicabile. Questa infatti, nel riportare i medesimi passaggi della sentenza n. 194 del 2018 a supporto della tesi dell’incostituzionalità del meccanismo di computo dell’indennità, si sofferma proprio sulla ragione della presunta irrilevanza del motivo di distinzione del criterio di calcolo tra i licenziamenti sostanzialmente e formalmente illegittimi. L’argomentazione prescinde qui dalla considerazione dell’art. 24 Cost., richiamando piuttosto una pronuncia della Corte costituzionale (la n. 204/1982), al fine di precisare come la natura sostanziale o procedurale dell’illegittimità alla base del licenziamento non paia “poter essere valorizzata oltre una certa misura in rapporto ai principi fondamentali” alla luce del fatto che la garanzia apportata dall’art. 7 della legge n. 300/1970 “lungi dal porsi come mera prescrizione di forma, assolve una funzione di protezione” ex art. 41, comma 2 Cost. “che, seppur non costituzionalmente imposta, anticipa a tale scopo… il rispetto del principio di civiltà del c.d. audiatur et altera pars“. Con ciò il Tribunale di Roma pare sostenere in maniera diretta la natura intrinsecamente sostanziale del diritto sotteso alla violazione delle norme che sovrintendono alle procedure di licenziamento, eventualmente aggirando le perplessità che l’argomentazione per saltum del giudice barese potrebbe suscitare.
Ciò che è certo è che la sentenza n. 194 del 2018 ha dato adito ad un ampio dibattito che accompagna la considerazione, già diffusa a livello giurisprudenziale, dei profili critici che la disciplina sui licenziamenti presenta, in misura tale che si considera l’eventualità che la Corte costituzionale possa esprimere un invito al Parlamento perché intervenga in vista del riordino della materia.
Giacomo Nascetti