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Bollettino ADAPT 17 febbraio 2020, n. 7
Si è letto da più parti come, in un mercato globalizzato in cui anche le aziende dal profilo più marcatamente domestico risultano gradatamente esposte agli eventi di rilievo internazionale, con buona probabilità non mancheranno (o meglio, non mancano) effetti negativi sull’economia legati alle conseguenze nefaste del c.d. “coronavirus”. Se infatti dal punto di vista sanitario l’Occidente pare ancora toccato in minima parte rispetto ai territori del focolaio, quelli che ne risentono sono in particolare i mercati (economia reale, scambi finanziari, merci e servizi) connessi con la Cina, che fino ad oggi in diverse aree ha quasi totalmente chiuso produzioni ed uffici per garantire massima precauzione circa il rischio-contagio.
Non è però possibile confinare tale ragionamento al solo mercato degli scambi finanziari o delle merci. A risentirne è/sarà anche il funzionamento, anch’esso globalizzato, del mercato del lavoro, sia interno che esterno alla singola azienda. E ponendoci dalla prospettiva della singola impresa italiana, il problema pare bi-direzionale: da un lato la possibile necessità di inviare in trasferta proprio personale in zone considerate a rischio (anche se non limitrofe all’area di Wuhan); dall’altro la gestione del rientro di personale dall’area orientale, anche laddove non si tratti di personale effettivamente a rischio o addirittura contagiato.
Quanto al primo profilo, pur in presenza di strumenti di legge e contratto collettivo (ma anche individuale) che abilitano in ogni caso a comandare in trasferta i singoli lavoratori, appare quantomeno comprensibile la preoccupazione dei singoli che – in questa occasione come, in verità, in generale –, sono assai meno propensi a viaggiare verso territori a rischio. Rischio che viene sovente valutato nelle politiche di remunerazione delle trasferte adottate a livello aziendale, anche mediante accordo sindacale, per cui a criteri quali distanza, durata della permanenza in loco, rischio ambientale/sanitario, corrispondono – in scala crescente – differenti importi erogati a titolo di indennità, anche se variamente definiti a livello di nomenclatura (indennità di disagio, indennità di trasferta aggiuntiva a quanto previsto dal CCNL, …). Nel caso in esame non è peraltro pacifico che la semplice compensazione economica sia sufficiente a mitigare il rischio-percepito e la sua accettazione; pare in altri termini complesso azionare un procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore obbligato per contratto a svolgere attività in trasferta che si rifiuti di viaggiare in zone anche solo attigue a quella di cui qui ci occupiamo.
Il datore di lavoro è in ogni caso tenuto (art. 18 co. 1 lett. b) d.lgs. n. 151/2015, di modifica dell’art. 2 d.l. n. 398/1987 conv. in l. n. 317/1987) a valutare rischio esogeni al rapporto di lavoro in caso di trasferta, adottando misure idonee a tenere indenne il lavoratore, con particolare riferimento a: sistemazione logistica; idonee misure di sicurezza; presenza di una assicurazione per ogni viaggio di andata nel luogo di destinazione e di rientro dal luogo stesso, per i casi di morte o di invalidità permanente. Approccio ribadito dalle strutture del Ministero del Lavoro con l’Interpello n. 11/2016, laddove si evidenzia la necessità di valutare anche “i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà esser svolta quali, ad esempio i rischi generici aggravati legati alla situazione geopolitica del paese (guerre civili, attentati …) ed alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa svolta”. Con ciò ponendo a rischio di legittimità l’atto, inerente il potere direttivo, dell’invio in trasferta di un lavoratore in aree a rischio.
Quanto invece al rientro di lavoratori che pur non giungendo direttamente dalla zona del focolaio debbono rispettare periodi di quarantena o anche solo di riposo, anche a fronte di possibili tensioni in azienda ingenerate da colleghi (forse eccessivamente) preoccupati per la sicurezza sanitaria, assumono rilievo particolari forme, variamente definite e normate, di lavoro da remoto. È stato già scritto come in Cina si stia andando verso una diffusione maggiore, in particolare, dello smart working; soluzione che viene ripresa e riproposta anche nel dibattito italiano. Tornano a questo proposito alla mente le varie iniziative poste in essere, sia nel pubblico (mediante apposito protocollo tra diversi enti) che nel privato (si pensi all’accordo Leonardo del 12 settembre 2018), in occasione del crollo del Ponte Morandi, al fine di ridurre la circolazione di autoveicoli e facilitare viabilità ed operazioni di soccorso e lavoro nell’area colpita.
Volendo abbandonare un approccio meramente gestionale e sociologico alla materia dello smart working, dovendo invece affrontare la materia da un punto di vista tecnico, non si possono tacere alcune considerazioni che, invero, aprono doversi interrogativi di fondo, a livello di ordinamento e di fonti del diritto (del lavoro).
Le condizioni che qui stiamo analizzando richiedono una permanenza all’esterno dai locali aziendali per un periodo più o meno lungo di tempo, comunque continuato, dunque regolare. Diversamente, l’art. 18 co. 1 l. n. 81/2017 ha definito il lavoro agile (smart working) come una modalità di svolgimento della prestazione di lavoro subordinato, da svolgersi in parte all’interno ed in parte all’esterno dei locali aziendali (secondo un principio di alternanza), pur senza indicare un criterio di prevalenza (o una percentuale massima, come invece faceva nel 2014 l’originario “DDL Mosca”).
La soluzione del lavoro agile appare dunque incompatibile con le esigenze di cui sopra, in particolar modo laddove applicata a rapporti che in precedenza non ne conoscevano l’attuazione.
Diversamente, assume particolare rilievo la disciplina, ancora in vigore, del telelavoro, quale “forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell’ informazione nell’ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l’attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell’impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa” (art. 1 Accordo Interconfederale 9 giugno 2004). Forma che può attivarsi senza necessità di una postazione fissa e definita (cioè non obbligatoriamente presso il domicilio), normalmente mediante accordo in forma scritta, sebbene non vi sia obbligo in tal senso, neppure a fini probatori o amministrativi, come invece avviene per il lavoro agile. Vige solamente l’obbligo di fornire al telelavoratore talune informazioni per iscritto (art. 2 co. 2 A.I.), in ipotesi anche solo via e-mail, tra cui: contratto collettivo applicabile, unità produttiva di riferimento, nominativo del superiore diretto; obblighi spesso già assunti in sede di assunzione. In questo senso il telelavoro appare pure di più immediato impiego.
Una simile soluzione, ne siamo consapevoli, apparirà ai più come in aperta contro-tendenza rispetto alle più innovative politiche di management e gestione moderna del personale dipendente, sebbene la ricostruzione del dato tecnico sia pressoché inconfutabile, sempre laddove si voglia adottare un approccio pragmatico, risolutivo e rispettoso del dettato legislativo e non già una semplice occasione, come tante, di accodarsi acriticamente ai trend del momento.
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
Università degli Studi di Bergamo