Pensare il futuro del lavoro fuori dagli schemi del Novecento industriale: il caso del lavoro di cura*

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Ha ragione Stefano Zamagni a denunciare (sul Sole 24 Ore del 2 settembre 2018) l’incapacità della politica, ma anche di noi giuristi, di pensare il futuro del lavoro fuori dagli schemi del Novecento industriale. La disoccupazione e il lavoro che manca non sono colpa della tecnologia ma dell’assetto istituzionale, delle leggi e delle politiche messe in campo. La vera rigidità oggi è l’incapacità culturale di pensare il lavoro in una economia post-industriale e di intercettare i nuovi bisogni emergenti, in una società che sta cambiando. Ci piace pertanto ricordare, in questi giorni, un pionieristico patto locale per l’occupazione promosso e guidato dal professor Marco Biagi, il quale, nel lontano 2000, con la sua impareggiabile capacità di intravedere gli scenari futuri, aveva intercettato l’esigenza e l’urgenza dell’emersione di un mercato del lavoro moderno ed efficiente nel settore dei servizi di cura e assistenza alla persona.

 

A distanza di quasi 20 anni, vogliamo ricordare il Patto modenese per l’assistenza domiciliare agli anziani, firmato il 22 dicembre 2000 dal Comune di Modena, le OO.SS. confederali dei pensionati e di categoria Cgil, Cisl, Uil, Cupla e la Lega provinciale delle Cooperative e Confcooperative-Unione di Modena. Nato, quest’ultimo, nell’ambito del progetto transnazionale Serdom, finanziato dalla Comunità europea, e affidato al coordinamento scientifico e progettuale del professor Marco Biagi, si dava come primario obiettivo l’attuazione di iniziative locali volte a promuovere e valorizzare i servizi assistenziali a domicilio, cercando di favorire l’incontro tra domanda e offerta in un settore ancora poco esplorato e regolamentato.

 

Ciò che oggi siamo costretti a costatare è che, nonostante già in passato fossero state percepite la centralità del tema e l’esigenza di trovare soluzioni atte a risolvere le criticità di un potenziale mercato emergente (si veda M. Biagi, M. Tiraboschi, Servizi di cura alla persona, assistenza domiciliare agli anziani e politiche locali per l’occupazione: l’esperienza modenese nel contesto comunitario, Fondazione Del Monte, 2000), dopo quasi venti anni da questa felice ma pressoché inattuata intuizione ci troviamo ancora al punto di partenza, a doverci confrontare con gli stessi problemi e con le stesse domande rimaste, troppo a lungo, senza risposta.

 

In una società permeata da rilevanti cambiamenti demografici e caratterizzata da un forte invecchiamento della popolazione, la quale sembra essere destinata a convivere sempre più a lungo con malattie croniche, i bisogni di assistenza e di cura crescono costantemente e, conseguentemente, coloro i quali sono chiamati a svolgere l’attività di cura risultano sempre più bisognosi di tutele e di un mercato che non sembra porre le giuste premesse per sorgere.

 

Negli ultimi dieci anni la principale spinta all’economia italiana nel settore dell’assistenza familiare – notoriamente contraddistinto da scarsa regolazione e da alti tassi di infortunio – è stata data dalle c.d. famiglie datori di lavoro: per citare solo uno dei dati più significativi a riguardo, si stima che dal 1995 al 2017 siano aumentate del 250%. Ciò che invece fatica a crescere è la consapevolezza dell’esigenza della promozione della professionalità in un settore tendenzialmente in balia di attività familiari volontarie e, al peggio, di lavoro nero. Il nostro ordinamento giuridico, infatti, pro- spetta limitati strumenti idonei a rispondere alle esigenze di natura sanitaria e socio-assistenziale quando ad essere datore di lavoro non è un imprenditore ma una famiglia. Nel contesto delineato, a fronte di una vasta gamma di figure professionali che presidiano il settore socio-assistenziale, un caso di studio interessante rimane quello concernente l’applicazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche grazie al supporto offerto dall’istituto della certificazione dei contratti (ai sensi del d.lgs. n. 276/2003).

 

In questa prospettiva, mentre la politica e l’opinione pubblica continuano a discutere su come valorizzare i caregiver familiari, noi proviamo a spostare il ragionamento altrove, verso nuovi lidi in cui la gestione di persone non autosufficienti non gravi solo sulle spalle dei parenti. E allora forse può avere senso ripartire dall’intuizione di Biagi, per poter riaprire il dibattito su un tema di cui si parla ancora troppo poco e, soprattutto, lo si fa senza trovare una soluzione in grado di interpretare gli scenari, attuali e futuri, del mercato del lavoro.

 

Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@MicheTiraboschi

 

*Articolo pubblicato in Bollettino certificazione DEAL-UNIMORE, n. 4/2018

 

Pensare il futuro del lavoro fuori dagli schemi del Novecento industriale: il caso del lavoro di cura*