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Bollettino ADAPT 2 marzo 2020, n. 9
Ai rider saranno applicate le tutele del lavoro subordinato. È questo il messaggio passato dopo la notizia della sentenza della Corte di Cassazione n. 1663/2020 del 24 gennaio, che sostanzialmente conferma, al netto di alcuni elementi sui quali non ci dilunghiamo, quanto già aveva deciso la Corte d’Appello di Torino quasi un anno fa. Le tutele del lavoro subordinato verranno applicate, in toto, laddove si rilevi la presenza dell’etero-organizzazione, così come previsto dall’art. 2 del decreto 81/2015 del Jobs Act. Una decisione quella della Suprema Corte che ha fatto festeggiare i più, con celebrazioni per il riconquistato posizionamento, nei fatti (pur restando lavoratori autonomi), nell’alveo del lavoro subordinato dei ciclo-fattorini, diventati negli ultimi anni il simbolo, nel bene e nel male, del nuovo lavoro.
In pochi si sono però interrogati sulle conseguenze pratiche e organizzative di questa scelta. Sappiamo infatti che il lavoro dei rider è organizzato secondo logiche diverse da quelle del lavoro subordinato tradizionale in termini di tempi, di continuità della prestazione, di autonomia nella scelta di lavorare o meno in un determinato giorno. Questo genera quindi una complessità determinata dall’impossibilità di predeterminare con certezza la forza lavoro disponibile sia nel breve che nel lungo termine. Caratteristiche che sono difficili da conciliare con le tutele del lavoro subordinato che si fondano su un modello organizzativo che vede una quota sostanzialmente fissa di tempo del lavoratore a disposizione del datore di lavoro per un periodo continuativo.
In un settore in cui i tassi di turnover sono elevatissimi tutto questo non è possibile. L’applicazione delle tutele del lavoro subordinato significa poi applicare i salari minimi orari contenuti nei contratti collettivi indipendentemente dal numero di consegne che il rider effettua. Così da generare un disincentivo a svolgere un numero di consegne superiori a uno e riducendo il numero di rider che le piattaforme possono coinvolgere a causa di questo aumento dei costi.
Sono tutti elementi che fanno pensare che la soluzione adottata non sia all’altezza della particolarità di questi modelli organizzativi, che sono inoltre diversi tra le varie piattaforme (ricordiamo che la sentenza nasce da un contenzioso contro Foodora, azienda oggi non più presente in Italia). Sembra sia stata scelta la via breve quindi e più rassicurante. Immaginarsi i rider come lavoratori coperti da tutte le tutele del lavoro subordinato può tranquillizzare, ma vuol dire non accorgersi delle conseguenze che questo può avere per l’intero comparto. Il dilemma non è semplice da sciogliere. Sappiamo infatti che molti aspetti di questo nuovo lavoro devono essere migliorati e che restano dubbi e perplessità sui modelli organizzativi adottati. Ma per farlo siamo disposti ad agire in modo conservativo rischiando (più che un rischio è una certezza) di distruggere un mercato nascente e un lavoro che ancora non è stato pienamente compreso? La risposta è chiaramente un fatto politico.
Di fronte a un nodo così pesante ci possiamo augurare che la soluzione arrivi dal dialogo tra le parti in gioco affinché si possa, come il decreto 101 suggerisce e come il Jobs Act prevede, costruire un contratto collettivo del settore che possa regolarne le peculiarità. Non sarà facile in quanto le parti stesse scontano la giovinezza del settore e il sindacato tradizionale deve ancora trovare le modalità e i luoghi per accogliere le istanze, spesso tra loro contrastanti, di questi lavoratori.
Ma proprio la difficoltà potrà essere occasione per gli attori delle relazioni industriali di dimostrare come di fronte a situazioni complesse e inedite il loro ruolo possa essere più efficace delle norme.
Presidente Fondazione ADAPT
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 28 febbraio 2020