Bollettino ADAPT 8 giugno 2020, n. 23
È intitolato “Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile”. Ne sono autori Tiziano Treu, presidente del Cnel, già ministro e parlamentare insieme con due giuslavoristi della “generazione di mezzo”: Bruno Caruso e Riccardo Del Punta. Nella presentazione gli autori spiegano che l’elaborato nasce da riflessioni comuni sull’esigenza di ripensare nel suo insieme il diritto del lavoro (latu sensu) alla luce dei cambiamenti intervenuti ed annunciati che hanno messo in discussione – tra i tanti aspetti – i profili del lavoro subordinato e di quello autonomo. Quando la redazione del manifesto era in corso il diritto del lavoro, al pari della normalità del vivere civile e dell’economia, è stato investito dallo shock provocato dalla pandemia che non ha posto soltanto problemi inediti per quanto riguarda la tutela del reddito e dell’occupazione, ma si è insinuata prepotentemente anche sul terreno della salute e della sicurezza del lavoro, sui regimi d’orario e sull’organizzazione delle filiere produttive e della stessa organizzazione del lavoro.
I giuslavoristi autori del manifesto prendono le distanze dalle visioni messianiche del “tutto cambierà”. Come non è finita la storia, così non è finito il diritto del lavoro che dovrà adattarsi all’interno del perimetro disegnato dalle nuove tecnologie, il cui sviluppo (la considerazione degli autori è condivisibile) sarà accelerato dagli effetti dell’emergenza sanitaria. “Ma il nuovo che avanza – sottolineano i giuslavoristi – non riguarda soltanto le fattispecie e i loro nessi con le discipline, bensì quello che accade nel cuore della struttura obbligatoria del contratto di lavoro subordinato, anche qui come conseguenza ultima di processi di trasformazione dei sistemi organizzativi e produttivi, in buona parte legati alla crescente adozione di tecnologie. Il concetto guida dovrebbe essere quello che il lavoratore subordinato collabora alla realizzazione degli scopi produttivi dell’impresa e alla gestione efficiente e competitiva della stessa, a fronte di retribuzione e sicurezza della persona, ma anche, più ampiamente, di un pieno “riconoscimento” del suo ruolo essenziale nell’attività di impresa e della conseguente valorizzazione delle sue competenze e capacità”. Il manifesto è molto ampio ed esaustivo, non solo nelle analisi ma anche – e soprattutto – nelle indicazioni di policy per l’aggiornamento dei principali istituti del diritto del lavoro, di quello sindacale e assistenziale/ previdenziale.
Per (de)formazione professionale ho concentrato la mia attenzione sulle considerazioni relative al sistema di welfare e in particolare delle pensioni. Gli autori, pur apprezzando l’introduzione del metodo contributivo quale criterio di unificazione di un ordinamento pensionistico cresciuto per partenogenesi in chiave perversamente corporativa, sanno che tale sistema non è – come spesso si afferma – di per sé peggiorativo per i lavoratori. Il problema vero sta nelle condizioni di lavoro a cui si applica, troppe volte caratterizzate da rapporti discontinui, precari, sotto retribuiti che mortificano il montante contributivo che è l’elemento principale del calcolo della prestazione. in sostanza – non mi pare che gli autori lo affermino direttamente – ma la riforma del 1995 aveva come riferimento il rapporto di lavoro standard. L’istituzione della Gestione separata sembrò allora una cauta esplorazione di una terra sconosciuta. Che fare, allora? “L’obiettivo di sostenere il livello delle pensioni – annotano gli autori – può essere agevolato con strumenti in parte già previsti: riscatto dei periodi di laurea, totalizzazione dei contributi, contributi figurativi ecc. Ma tali interventi possono servire come integrazioni parziali del sistema, mentre non bastano a correggere gli effetti di carriere discontinue né tanto meno insufficienze di reddito, oggi diffuse soprattutto in molti lavori precari e di bassa qualificazione’’.
Le modalità con cui si può correggere l’attuale sistema contributivo, per garantire prestazioni pensionistiche più adeguate, sono diverse. Un intervento, per così dire indiretto, può essere quello di prevedere rendimenti più elevati della media per i lavoratori a bassi salari che risentono più gravemente dell’applicazione del metodo contributivo, eventualmente compensandoli con rendimenti minori per chi ha retribuzioni più alte. Una soluzione più diretta è di stabilire tout court un’integrazione a carico del bilancio pubblico delle pensioni di coloro che, per l’andamento dei loro percorsi lavorativi, non hanno accumulato contributi sufficienti a raggiungere un livello di pensione ritenuto adeguato (come avviene con l’integrazione al minimo delle vecchie pensioni retributive). In entrambi i casi, si tratta di stabilire la soglia e, quindi, la gradualità degli interventi correttivi da introdurre al sistema contributivo. “Lo sviluppo coerente di queste proposte – ecco il punto chiave – è di andare oltre un approccio basato su correttivi parziali e procedere a una revisione strutturale del sistema pensionistico pubblico in modo tale da costruirlo su due componenti: una prestazione pensionistica di base finanziata dal fisco, secondo la logica universalistica, destinata a garantire a tutti i cittadini anziani bisognosi prestazioni adeguate alle esigenze di vita; un secondo livello, di tipo contributivo puro, o addirittura costituito su basi di capitalizzazione, garantirebbe prestazioni aggiuntive correlate ai contributi versati dai singoli soggetti nel corso della loro vita (anche questo secondo pilastro avrebbe rilievo generale e, quindi, carattere obbligatorio).
Resterebbe la possibilità di pensioni complementari volontarie costruite nelle forme attuali, aggiornate e sostenute da agevolazioni fiscali più adeguate’’. Nel leggere questo brano mi sono sentito più giovane di dieci anni, perché viene ribadita l’idea-forza contenuta in un disegno di legge (delega), predisposto nel novembre del 2009, dal sottoscritto (allora vice presidente della Commissione Lavoro della Camera) e dal senatore Tiziano Treu; e da noi presentata come primi firmatari nelle Camere di appartenenza. La lettera c) dell’articolo 1 recitava: c) riconoscimento di un trattamento pensionistico obbligatorio articolato secondo le seguenti componenti: 1) una pensione di base finanziata dalla fiscalità generale, di importo pari all’assegno sociale di cui all’articolo 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, rivalutabile ai sensi del medesimo articolo 3; 2) una pensione calcolata secondo il sistema contributivo ai sensi dell’articolo 1, commi 6 e seguenti, della legge 8 agosto 1995, n. 335, e successive modificazioni. Ciò allo scopo di assicurare, in particolare ai soggetti con minore capacità reddituale e contributiva, trattamenti pensionistici obbligatori complessivi e lordi non inferiori al 60 per cento della retribuzione di riferimento’’. Chi scrive ha ripreso più volte quella comune riflessione con l’amico Tiziano. Basti solo citare la rubrica che mi ospita settimanalmente ADAPT, quella contrassegnata col n.5, del lontano 2015, dove avevo proposto: “sarebbe istituito per questi lavoratori un trattamento di base, ragguagliato all’importo dell’assegno sociale e finanziato dalla fiscalità generale che faccia, a suo tempo, da zoccolo per la pensione contributiva o svolga il ruolo di reddito minimo per chi non ha potuto assicurarsi un trattamento pensionistico; per quanto riguarda il finanziamento della pensione complementare sarebbero consentiti l’opting out volontario e il relativo versamento del corrispettivo in una forma di previdenza complementare, di alcuni punti di aliquota contributiva obbligatoria, nei termini e con le cautele ipotizzate dalla riforma Fornero”.
Membro del Comitato scientifico ADAPT