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Bollettino ADAPT 15 giugno 2020, n. 24
Il bagno di realtà a cui ci hanno obbligato i dati sul mercato del lavoro di aprile diffusi da Istat apre non poche prospettive sull’economia italiana dei prossimi mesi. Innanzitutto perché cadono alcuni tabù ai quali ci si era quasi abituati, primo tra tutti quello secondo il quale «nessuno perderà il posto di lavoro». Si trattava di un mantra supportato da un blocco dei licenziamenti prolungato fino ad agosto e dall’ampio utilizzo e finanziamento di ammortizzatori sociali ma nonostante questo i 274 mila occupati in meno di aprile e i 400 mila in meno da marzo ci dicono che si trattava di una falsa speranza. Una falsa speranza pagata soprattutto dai lavoratori temporanei per i quali il blocco dei licenziamenti poco ha potuto di fronte alla scadenza naturale del contratto a termine puntualmente non rinnovato e non sostituito dall’attivazione di un nuovo contratto con un nuovo lavoratore. A questo si aggiunge un dato psicologico importantissimo ossia l’esplosione degli inattivi che crescono di oltre 700 mila unità in un solo mese riportando il tasso di inattività a quello di giugno 2011. Di fronte a questi dati si dirà che è normale che le persone smettano di cercare attivamente lavoro in un mese di pieno lockdown, ma questo conta poco, il riassorbimento di una quota così elevata di inattivi infatti sarà possibile solo a fronte di una fase largamente espansiva del ciclo economico nei prossimi mesi. Ed è qui che i nodi arrivano facilmente al pettine. Infatti l’insieme di politiche messe in atto ad oggi per contrastare i nefasti effetti di Covid-19 sul lavoro sembra avere una natura principalmente passiva e contenitiva. Ma il blocco dei licenziamenti, che può essere una soluzione giusta soprattutto in un momento in cui la chiusura di molte imprese è stata determinata da una decisione del governo, non potrà durare troppo a lungo anche perché i fondi per il finanziamento degli ammortizzatori sociali, che saranno rafforzati dal piano Sure, non sono infiniti. Ci si trova quindi di fronte a una scommessa: se le imprese riusciranno a recuperare i livelli pre-crisi entro la fine del blocco dei licenziamenti l’occupazione reggerà, in caso contrario è facile prevedere lo scenario.
Si coglie subito il rischio e la debolezza di questa scommessa, basta prendere in analisi le diverse previsioni sull’andamento del Pil e della produzione industriale. Per questo la priorità ora è quella di cambiare approccio, da meramente difensivo a espansivo, avendo come obiettivo quello di rafforzare il capitale umano, vero asset contemporaneo per le imprese, e investire in innovazione perché il mercato del lavoro abbia un assetto diverso all’uscita dell’emergenza e non lo stesso con cui siamo entrati. Sono almeno due i fronti sui quali si potrebbe agire in questa fase. Il primo riguarda la riqualificazione professionale dei lavoratori oggi in cassa integrazione, approfittando delle ore di non lavoro per l’aggiornamento delle proprie competenze a partire da un piano di alfabetizzazione digitale che renda tutti in grado di saper dialogare con le nuove tecnologie. Non sono ancora chiari i dettagli sull’utilizzo dei fondi del piano Sure ma sarebbe poco lungimirante utilizzarli solo per finanziare una forma passiva di ammortizzatore sociale che spesso si traduce nel prolungare una agonia dagli esiti certi. Al contrario investire parte di questi fondi per programmi di formazione dei lavoratori aiuterebbe nell’innalzare il livello del capitale umano nel mercato del lavoro italiano garantendo da un lato maggiori possibilità ai lavoratori che potranno perdere il lavoro a causa della crisi economica e, dall’altro, garantendo alle imprese le competenze che cercano. Per far questo, ed evitare di sprecare le poche risorse disponibili, occorre però innovare sia nel metodo che nel contenuto la formazione, e questa è la sfida centrale anche del Fondo nuove competenze istituito dal Decreto Rilancio. Una formazione che deve essere il più possibile allineata con le esigenze delle singole imprese per evitare programmi troppo ampi e inefficaci, e una formazione che deve innovare la didattica per utilizzare al meglio le tecnologie per la formazione a distanza che abbiamo imparato tutti a conoscere in questi mesi.
La seconda priorità dovrebbe essere rivolgere sguardo e azioni concrete verso la fetta del mercato del lavoro che, insieme alle donne, sta pagando di più questa prima fase di crisi economica: i giovani. I dati mostrano chiaramente come il tasso di occupazione sia calato maggiormente ad aprile proprio nella fascia 25-34 anni (1,3%) e depurando dalla componente demografica i dati emerge come tra i 15 e i 34 anni il calo degli occupati sia stato del 4,4%, quasi il triplo della media nazionale e più di venti volte quello degli occupati tra i 50 e i 64 anni. Ma questi numeri non devono generare, come spesso accade, un senso di compassione verso una generazione che rischia il colpo mortale dopo una crisi già subita pesantemente dieci anni fa. L’impoverimento dell’occupazione giovanile deve piuttosto far riflettere sulle conseguenze che possono derivare per l’economia nel suo complesso e per i livelli di innovazione e competitività delle imprese. Sappiamo bene che “giovane” non coincide con “innovazione”, ma sappiamo anche come in un mercato del lavoro che continua ad invecchiare i rischi derivanti dal dimenticarsi una o più generazioni sono troppo elevati. Per questo l’occasione sarebbe la migliore per rilanciare strumenti come l’apprendistato di primo livello, la via italiana al sempre citato modello duale tedesco, oggi utilizzato da poco più di diecimila giovani in tutta Italia. Uno strumento in grado di potenziare il sistema produttivo italiano perché coniuga formazione e lavoro in modo efficace all’interno di un vero e proprio contratto di lavoro. Allo stesso modo occorrerebbe ripensare i tirocini affinché si traducano in veri strumenti formativi e non in forme per ottenere manodopera a basso costo.
Per entrambi questi aspetti è necessario certamente un chiaro indirizzo da parte del governo centrale ma soprattutto il coinvolgimento dei sistemi di relazione industriali settoriali e territoriali. La formazione infatti funziona, sia con gli adulti che integrata con lo studio scolastico, se risponde alle esigenze particolari dei settori produttivi e del ruolo che le aziende ricoprono nelle catene globali del valore. Questo ruolo si attua all’interno dei territori e l’obiettivo si raggiunge integrando e coordinando i vari attori, moltiplicando così le possibilità di una ripartenza che avrebbe conseguenze positive sull’intero Paese.
Presidente Fondazione ADAPT
*pubblicato anche su ll Sole 24 Ore, 11 giugno 2020