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Bollettino ADAPT 13 luglio 2020, n. 28
L’esito della emergenza sanitaria da Covid-19 ci ha lasciato una crisi economica e occupazionale grave e che pare sembra senza sbocchi. Questo anche perché non siamo stati capaci di fare della pandemia il punto di svolta culturale e progettuale, da tempo atteso, di un modo di pensare al mercato del lavoro che non si può più realisticamente pensare di far funzionare con le logiche e gli schemi del passato. Può essere di particolare utilità, in questa prospettiva, rileggere Ulrich Beck che è stato tra i primi a delineare alcune tenenze della nuova modernità e le dinamiche di una “società del rischio” (U. Beck, Risikogesellschaft (1986), tr. it. di W. Privitera e E. Sandrelli, La società del rischio. Per una seconda modernità, Carocci, Roma, 2013) oltre le categorie del post-fordismo, del lavoro produttivo, del profitto e del consumo. Quelle che allora apparivano utopie o visioni futuristiche si sono in effetti avverate e forse una soluzione alla crisi occupazionale può essere individuata nei mercati emergenti del lavoro, caratterizzai da beni comuni e relazionali quali i servizi di cura e assistenza alle persone fragili, i servizi sociali ed educativi, la manutenzione del territorio, la tutela ambientale, gli interventi di rigenerazione urbana, la riqualificazione degli spazi pubblici, la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale (ancora U. Beck, Schöne neue Arbeitswelt.Vision: Weltbürgergesellschaft (1999) tr. it. di H. Riediger, Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e nuovo impegno civile, Einaudi, Torino, 2000).
Colpisce, in questa prospettiva, il concetto di “lavoro di impegno civile”, a cui Beck si riferiva per indicare le nuove forme di impiego lavorativo e di impegno politico che andavano affermandosi sulle ceneri del lavoro industriale. Da non confondersi con l’obbligo di svolgere lavori socialmente utili in cambio del beneficio di sussidi sociali, il lavoro di impegno civile fa perno sulla spontaneità e sull’autonomia organizzativa di persone che cercano forme alternative di attività e identità, dando vita alla realizzazione di progetti finalizzati al bene comune. Realisticamente, Beck aveva immaginato un rapporto di complementarietà tra il lavoro salariato e il lavoro di impegno civile, che dovrà restare circoscritto a quegli ambiti di attività che non possono essere espletati per nulla, oppure solo in modo parziale, dal lavoro salariato. Il concorso alla realizzazione di una società buona giustifica la possibilità che il citizen work possa essere ricompensato con un reddito di cittadinanza, una forma di riconoscimento sociale per gli addetti al lavoro di impegno civile. Non un compenso salariale, che potrebbe snaturare il fine ultimo dell’utilità collettiva, ma un compenso economico, equivalente ad un sussidio di disoccupazione, che garantirebbe al soggetto coinvolto la libertà di scelta nell’intraprendere un lavoro “normale” o un’attività di impegno civile. Il reddito di cittadinanza immaginato da Beck non avrebbe quindi il fine di provvedere ai bisogni dei cittadini poveri cristallizzandone la condizione, ma quello di stabilire un sostrato di cittadinanza comune a partire dalla quale sia consentito un investimento discrezionale della propria identità, dei propri tempi e delle proprie relazioni, senza che ciò comporti perdite in termini di sicurezza materiale ed esistenziale. Sgravando i lavoratori dal provvedere alle necessità materiale garantendo loro un sostegno economico a prescindere dal campo di impiego, si aprirebbe infine uno spazio collettivo in cui sarebbe possibile esercitare e godere dei diritti di cittadinanza, promuovendo e rivitalizzando al contempo il sistema democratico che ordina le nostre società.
Lo sviluppo del capitalismo tecnologicamente avanzato fa vacillare il lavoro industriale quale perno della società, spostandone il baricentro verso un bacino di attività in cui la solidarietà può ritrovare la sua funzione di principio costitutivo della convivenza. Se nella fase della “prima modernità”, che coincide con gli anni dello sviluppo industrialista, il lavoro ha subito un profondo processo di riabilitazione, culminato nell’elezione della condizione di lavoratore salariato a fondamento dei diritti di cittadinanza, come sancisce la nostra stessa Costituzione, nell’epoca del “post-lavoro” scema tale ruolo di integrazione storica. Sotteso al cambio di paradigma economico produttivo si registra infatti un nuovo approccio antropologico, che non si concretizza più nella figura equivalente del lavoratore-cittadino e non riconosce più solo il lavoro salariato quale veicolo di integrazione sociale, ma promuove una rinnovata centralità della persona e del complesso dei suoi bisogni. Più profondamente, riconoscere valore al lavoro di impegno civile significa anche spogliarsi dell’etica capitalistica di weberiana memoria e del principio secondo il quale “soltanto chi lavora è” mentre chi è disoccupato o inattivo è soggetto a discredito sociale, di cui l’industrialismo occidentale è intriso.
Beck demanda l’organizzazione del lavoro di impegno civile e le modalità di associazione inclusiva della società del post-lavoro all’imprenditore per il bene comune. Una nuova figura che, come suggerisce il nome stesso, condensa nella propria persona i tratti dell’imprenditore e del filantropo o forse anche di quello è che è diventato oggi il terzo settore e la sua relazione con l’impresa privata, svolgendo un ruolo di raccordo tra il mercato e la politica, che ben esprime il carattere ibrido del lavoro di impegno civile, a metà strada tra lavoro salariato e attività di volontariato. Una persona dalla spiccata attitudine pragmatica e attenta osservatrice del tessuto territoriale e sociale nella quale è inserita, capace di promuovere e organizzare esperienze di lavoro di impegno civile intercettando tutti quei soggetti che vivono fasi di transizione (lavorativa ed esistenziale), e che quindi sono più esposti a processi di marginalizzazione e povertà: così Beck immagina l’imprenditore per il bene comune. Un soggetto che può svolgere un ruolo chiave nella società del post-lavoro, ponendosi come riferimento autorevole e riconosciuto per giovani in uscita da percorsi di formazione, per disoccupati in cerca di percorsi di riqualificazione, per genitori alle prese con forme di conciliazione vita-lavoro, ma anche per normali cittadini interessati a contribuire alla costruzione di una società buona.
Ormai oltre un ventennio fa, Beck, con un accenno a Hannah Arendt e a Ernst Gellner, ravvisava nell’articolazione di lavoro, azione e contemplazione «i concetti basilari di una società dalla carriera multipla» (U. Beck, Una prospettiva globale: oltre la società del lavoro, in Paradigmi. Rivista di critica filosofica, n. 1-2008, p. 30) dove ogni individuo potesse essere parte della vita economica, socio-politica e intellettuale secondo l’idea di uno sviluppo pieno della persona umana che dovrebbe correre lungo questi tre binari. Una riflessione a suo modo profetica, che ben descrive le potenziali direttrici di sviluppo dell’attuale società del post-lavoro, che può riscattare l’individuo anzitutto come cittadino e poi come lavoratore, promuovendo forme di aggregazione lavorativa o politica che esulino la mera dimensione economicista per provare a rispondere ai bisogni più intimi dell’uomo.
ADAPT Junior Fellow