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Bollettino ADAPT 25 settembre 2020, n. 35
L’apporto di lavoro dei familiari spesso si traduce in forme di lavoro acontrattuali o in regime di gratuità, che per sua natura, normalmente, non richiede un contratto. Questo è il presupposto che mi porta ad includere il lavoro familiare nei miei “Appunti di viaggio sulle forme di lavoro senza contratto”.
L’importanza della famiglia è universalmente riconosciuta: “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società” (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani).
La sua rilevanza nell’ordinamento italiano è cosa nota.
Eppure proprio in quest’ambito, per quanto sopra evidentemente ampiamente tutelato, con specifico riferimento al mondo del lavoro, perdura un cortocircuito logico-giuridico che appare lontano dall’essere risolto.
Ricordiamo che l’intervento lavorativo familiare nel contesto italiano si può realizzare in diversi modi:
- Gratuitamente;
- Tramite i contratti atipici di lavoro;
- Tramite i contratti tipici di lavoro;
- Tramite specifiche scelte societarie come nel caso delle società di capitali;
- Tramite l’azienda di tipo familiare ex art. 230-bis c.c, come ipotesi residuale.
Nel nostro ordinamento normalmente vige una generale presunzione di onerosità della prestazione lavorativa che trova i suoi fondamenti cardine nella Costituzione e nel codice civile. Si pensi a quanto stabilito in particolar modo dall’art. 1 e 36 della Costituzione e dagli art. 2094 e 2222 del codice civile.
La presunzione di onerosità, semplice e non assoluta, implica che l’attività lavorativa si ritiene sia prestata sempre a fronte di una retribuzione o compenso.
Questa presunzione nell’ambito del lavoro familiare viene meno in ragione di un legame affettivo e quindi solidaristico, Affectionis vel benevolentiae causa.
Ciò vuol dire che la prestazione lavorativa, nel contesto familiare, si ritiene sia “prestata per solidarietà ed affettività, quale obbligo connaturato al vincolo familiare o coniugale, avente lo scopo di migliorare le condizioni di esistenza, materiali e spirituali, dell’intero nucleo familiare” (T. Bussino).
Prendendo spunto da quanto sancito dall’art. 230 bis c.c., stante la volontà del legislatore di definire la portata del legame parentale in ambito lavorativo, si potrebbe affermare che si ricade nell’alveo del lavoro familiare in caso di prestazione effettuata da parenti di primo grado (genitori e figli), di secondo grado (i nonni, i fratelli e le sorelle, i nipoti), di terzo grado (i bisnonni e gli zii, i nipoti intesi come figli di fratelli e sorelle, i pronipoti intesi come figli dei nipoti di secondo grado), gli affini (i suoceri, i nonni del coniuge ed i cognati, i bisnonni del coniuge, gli zii del coniuge, i nipoti intesi come figli dei cognati).
Questa però, a ben vedere, non pare la reale connotazione per i rapporti che risiedono al di fuori dei confini dell’impresa familiare, che sembrano invece basarsi sulla generica previsione dell’art. 77 c.c., che indica come limite massimo per il rapporto di parentela il sesto grado, salvo, appunto, specifiche previsioni (si pensi, ad esempio, al Decreto Legge n. 18 del 17 marzo 2020, che estende il grado di parentela per l’effettuazione di lavori agricoli a titolo gratuito al sesto grado di parentela, pur prevedendo, al termine dell’emergenza Covid-19, il ritorno al limite del quarto grado).
In aggiunta, vi è da dire, il rapporto di parentela non sembra essere sufficiente per inquadrare l’ambito suddetto. Il concetto di convivenza, infatti, ai fini di cui sopra, riveste un ruolo fondamentale (anche con riferimento al convivente more uxorio, come da Sentenza Cass. Civ. sez. lav. n. 23624/2010): si vedano le sentenze della Corte di Cassazione sez. lavoro, 23 febbraio 1989, n. 1009 e Corte di Cassazione sez. lavoro, 3 ottobre 1979, n. 5049 che si richiamano ad un “duplice presupposto della sussistenza di uno stretto rapporto di parentela o di affinità e della convivenza o di una comunanza di vita e di interessi tra le parti”.
Come è facile capire la presunzione di gratuità trova gran parte del suo fondamento nella giurisprudenza.
Si ritiene fondamentale, a tal riguardo, l’indicazione di due ulteriori massime:
- Ogni attività lavorativa è presunta a titolo oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa e fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici (Cassazione Civile, sez. lavoro, sentenza 26/01/2009 n° 1833).
- L’attività lavorativa e di assistenza svolta all’interno di un contesto familiare in favore del convivente di fatto trova abitualmente la sua causa nei vincoli di solidarietà ed affettività esistenti, che di regola sono alternativi ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato, mentre talvolta è possibile inquadrare il rapporto stesso nell’ipotesi dell’impresa familiare, applicabile anche alla famiglia di fatto in quanto essa costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale ex art. 2 (Cassazione Civile, sez. lavoro, sentenza 15/03/2006 n° 5632).
Ai fini della valutazione della gratuità, riveste grande importanza anche la valutazione della frequenza lavorativa: ovvero se la prestazione di lavoro sia occasionale o meno. Peraltro si ricorda che anche l’art. 230 bis c.c. si basa sulla continuità della prestazione come requisito per la nascita del relativo rapporto sinallagmatico (in questo frangente lo scambio tra lavoro e “mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia” e partecipazione “agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato”) e quindi per la configurazione dell’impresa familiare.
In questo caso non vi è (solo) la giurisprudenza a indicare il cammino (ad esempio la Sentenza Cass. Civ. sez. lav. n. 4535/2018), ma due lettere circolari del Ministero del lavoro e Politiche sociali e una nota dell’Ispettorato nazionale del lavoro:
– M.L.P.S., circolare n.10478 del 10.06.2013 in cui è chiarito che, nell’ambito delle prestazioni riconducibili all’Inps, è considerata occasionale, e quindi che non comporta l’iscrizione all’ente previdenziale, quella prestazione lavorativa del familiare che non eccede il limite quantitativo di 90 giorni annui, frazionabili in ore, ossia 720 ore nel corso di un anno solare. Resta inteso che è possibile il superamento dei 90 giorni se l’attività lavorativa del familiare ha luogo per poche ore al giorno, nel limite di 720 ore annue. Viene chiarito inoltre che l’attività occasionale è quella caratterizzata dalla non sistematicità e stabilità dei compiti espletati e che non comporti attività di tipo abituale e prevalente nell’ambito organizzativo.
– M.L.P.S., circolare n. 37/0014184/MA007.A001 del 5 agosto 2013, in cui è individuato il limite quantitativo di 10 giornate di lavoro annuo come soglia dopo cui scatta l’obbligo di natura assicurativa nei confronti del lavoratore familiare;
– I.N.L., nota n. 50 del 15 marzo 2018 che insiste sul concetto di abitualità e prevalenza per la corretta qualificazione del rapporto di lavoro. La nota chiarisce che l’attività ispettiva dovrà tenere conto che il lavoro del familiare, “che non assicuri una presenza continuativa oppure del familiare che abbia già un impiego full time”, o che sia pensionato, sia da configurare verosimilmente come prestazione resa per esigenze solidaristiche.
Si sottolinea, per accuratezza, che la presunzione di gratuità può essere vinta fornendo una prova rigorosa degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato e dei requisiti indefettibili della subordinazione e/o della onerosità (Sentenza Cass. civ. sez. lav., n. 9043/2011).
La ratio della presunzione di gratuità appare di semplice individuazione: evitare “la creazione illegittima di un rapporto subordinato, allorquando si è in presenza di una prestazione tra familiari” poiché questo “comporta un doppio”, ipotetico, “illecito tanto sul piano fiscale – perché permette un risparmio fiscale non dovuto – quanto sul piano previdenziale per la indebita maturazione di prestazioni sociali e di un diritto alla pensione” (T. Bussino).
Quanto sopra porta a desumere la malcelata esistenza di un moto perpetuo giuridico che sospinge all’utilizzo del lavoro gratuito a discapito delle altre forme di lavoro.
Il fatto che ci si debba muovere tra i meandri della giurisprudenza di merito e di circolari, che seppur qualificate, non si può ritenere abbiano forza di legge, rende il tutto però incerto.
In fin dei conti la tutela sembra essere indirizzata non tanto verso il lavoratore quanto, semplificando, verso il risparmio di denaro pubblico.
La sua utilità è evidente, ma vi è da dire che si discosta dal fulcro degli obiettivi acclarati del diritto del lavoro: “Il Diritto del lavoro è il complesso di norme che disciplinano il rapporto di lavoro e che tutelano oltre che l’interesse economico, anche la libertà, la dignità e la personalità del lavoratore” (De Luca – Tamajo).
Quanto in discussione, invero, non è la ratio della presunzione di gratuità, parzialmente comprensibile (non in questa sede si vuole discutere della legittimità, stricto sensu e non, del capovolgimento della presunzione di onerosità che permea i normali rapporti di lavoro), quanto la saltuaria ipocrisia normativa che si ravvisa in alcune previsioni del legislatore, che logicamente genera confusione.
Un esempio lampante di quanto affermato è riscontrabile nella quaestio del bonus baby-sitter nel periodo Covid-19 (anno 2020): questa forma di lavoro senza contratto è stata resa utilizzabile anche per retribuire i familiari non conviventi (circolare INPS 17 giugno 2020, n. 73), tra cui rientrano i nonni.
Come si può affermare che il ruolo del nonno non sia assolutamente affettivo e solidaristico, quindi reso Affectionis vel benevolentiae causa, e quindi dai chiari connotati di gratuità? Questo sembra andare contro tutte le previsioni fin qui elencate.
Peraltro, a tal proposito, desta perplessità il fatto che, nell’ambito del rapporto di lavoro domestico, proprio la mansione di assistenza ai bambini (baby-sitting) non rientri nell’elencazione dettata dal Dpr n. 1403 del 31 dicembre 1971 in cui sono individuati i casi di assoluta ammissibilità per i quali è consentita l’instaurazione di un rapporto di lavoro tra parti legate da vincolo di parentela.
Combattere quasi per principio la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in ambito familiare, a fronte di un grande, innegabilmente saltuario, lassismo nell’attivazione di altre forme lavorative (tipo prest.o/Libretto di famiglia) che consentono la percezione di soldi pubblici, o il godimento di prestazioni pubbliche, sembra essere un controsenso.
Una possibile soluzione potrebbe essere un prelievo contributivo aggravato, per i familiari conviventi che lavorano tramite gli ordinari contratti di lavoro o tramite il lavoro accessorio. Appare chiaro come la soluzione prospettata sia del tutto in controtendenza rispetto alla normale propensione della politica in ambito lavorativo che mira (o specula) all’abbattimento del costo del lavoro. Eppure in questo modo si potrebbe garantire:
- La cessazione o diminuzione del fenomeno della costituzione di falsi rapporti di lavoro in ambito familiare;
- La cessazione o mitigazione del fenomeno dell’utilizzo errato di strumenti come prest.o/libretto di famiglia;
- Una maggiore sostenibilità sociale delle prestazioni previdenziali maturate nell’ambito di un rapporto di lavoro reso dal familiare.
D’altro canto, considerata la sua natura preventiva, anche il ricorso alla cosiddetta certificazione del contratto, introdotta dal d. lgs. n. 276/2003, potrebbe avere grande utilità.
Ma forse ancora più semplice, in fin dei conti, è sperare in una norma che vada a delimitare definitivamente, pienamente, coerentemente, il perimetro del lavoro reso in ambito familiare, rendendo il percorso privo di ostacoli.
Marco Tuscano
Consulente del lavoro