Bollettino ADAPT 2 novembre 2020, n. 40
Il blocco dei licenziamenti durerà fino a tutto il prossimo mese di marzo. Il premier Conte ha accolto la perentoria richiesta dei sindacati. «Affrontiamo la sfida della pandemia – ha detto il premier, secondo quanto riferiscono le fonti – ma cercheremo di preservare i livelli occupazionali. Fino alla fine di marzo sarà tutto bloccato». «Offriamo un orizzonte certo». «Condividiamo il fatto – ha sottolineato – che sia il momento di dare un segnale di sicurezza a tutto il mondo del lavoro». Anche Maurizio Landini, leader della Cgil (che aveva minacciato il ricorso allo sciopero in mancanza di un congruo periodo di proroga) ha apprezzato il segnale dato al Paese e il “buon lavoro” compiuto insieme al governo. Lo stesso Carlo Bonomi questa volta non si è messo di traverso (anche perché lo avrebbero aggirato).
Conte ha chiesto il placet alla RGS, la quale ha assicurato la disponibilità dei 4 miliardi che occorrono per coprire il costo di 12 nuove settimane di cassa Covid, da far partire dal primo gennaio prossimo. Così Conte ha potuto rassicurare la Confindustria che, a pagare, sarà lo Stato. Finché un’impresa avrà la cig (gratuita) non potrà licenziare. Alcune aziende potrebbero usare le 12 settimane da gennaio, arrivare così a fine marzo, e poi essere libere di licenziare. Ma altre potrebbero non usarle una dopo l’altra e quindi lo stop ai licenziamenti per loro sarebbe ulteriormente vietato.
Il congelamento, pertanto prosegue. Non era quello che aveva raccomandato Ignazio Visco nell’intervista al Corriere della Sera dell’11 ottobre: “Serviranno scelte equilibrate tra cassa integrazione, redditi per sostenere i disoccupati, politiche attive del mercato del lavoro. Coloro che sono più colpiti dovranno acquisire nuove competenze e muoversi verso settori nei quali ci sarà più domanda”. In sostanza, il Governatore aveva già anticipato gli attuali scenari nelle sue Considerazioni finali: “La caduta dell’attività economica, aveva previsto”, ha infatti già “ridotto le nuove opportunità di impiego, ripercuotendosi in particolare sui giovani che per la prima volta si affacciano sul mercato del lavoro, su chi è abitualmente impegnato in attività stagionali, con contratti a tempo determinato o di apprendistato”. La carenza di lavoro “colpisce con maggiore intensità le attività tradizionalmente svolte dai lavoratori autonomi e il lavoro irregolare, ancora troppo diffuso nel nostro paese”.
Il trend viene confermato, ora, da una ricerca della Banca d’Italia sull’occupazione nei mesi estivi, riferita al alcune regioni. “La riduzione delle posizioni lavorative – è scritto nella Nota del 19 ottobre – durante il periodo di lockdown ha inciso in misura rilevante soprattutto sull’occupazione femminile riflettendo in buona parte, anche in questo caso, l’andamento particolarmente negativo del settore turistico e di quello dei servizi alla persona, dove le donne rappresentano in media i tre quinti degli addetti. Nel periodo successivo – prosegue la ricerca – alla rimozione dei vincoli, la domanda di lavoro nel settore è tornata a crescere, in misura maggiore per la componente femminile.
Nel complesso delle regioni considerate, il saldo netto complessivo resta però ancora negativo di oltre 43 posizioni in meno ogni mille dipendenti per le donne e di 26 per gli uomini, rispetto all’anno prima. L’emergenza sanitaria ha colpito in misura più intensa i giovani in tutte le regioni. Tale dinamica è da ricondurre oltre che alla loro rilevante presenza nei settori maggiormente coinvolti dalla crisi, anche all’ampia diffusione dei contratti a termine nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni. In tutte le regioni considerate il saldo resta ampiamente negativo per i giovani; il calo registrato nella classe d’età più matura durante il periodo di chiusura – conclude la Nota – è stato, invece, quasi interamente riassorbito nei mesi successivi’’.
In sostanza, il blocco dei licenziamenti e l’erogazione a gogò della cig hanno salvaguardato il fortilizio del lavoro stabile e strutturato, avvolgendolo in una Camicia di Nesso che finirà per strangolarlo. Eppure i dati del terzo trimestre hanno evidenziato un rimbalzo del 16,1% del Pil, superiore alle più lusinghiere aspettative di tutti gli osservatori economici. Ma ormai sembra acquisito che questa ripresa sarà strangolata nella culla perché sta prevalendo l’orientamento di andare oltre il lockdown squilibrato disposto con gli ultimi dpcm. Con l’aggiunta delle pantomime dello smart working nella PA e dell’insegnamento a distanza nelle scuole; sempre che non si decida di chiuderle e basta, perché – come dice il proverbio – è meglio un asino vivo che un dottore morto.
Del resto, che dire? Che fare? Così agiscono tutti i Paesi del Vecchio Continente. Se è consentito fare il verso al Sommo Pontefice posso affermare, rassegnato: “Chi sono io per giudicare Macron e Merkel?”. A volte, però, si ha la consolazione di leggere delle considerazioni che danno forma a nostri pensieri ancora confusi e ci aiutano ad esprimerli.
Il transfert, in me, è stato prodotto da un articolo di Luciano Capone sul Foglio di sabato scorso. “Il Covid, lo sappiamo, colpisce – scrive – più duramente gli anziani: l’età media dei deceduti e positivi al coronavirus è di 80 anni, mentre l’età mediana dei deceduti è più alta di 30 anni rispetto a quella dei positivi. La letalità – prosegue Capone – diminuisce nettamente al diminuire dell’età: i deceduti con meno di 50 anni sono l’1% del totale, quota che scende allo 0,2% sotto i 40 anni. Tutto questo è risaputo e, ovviamente, non rende meno necessarie tutte le precauzioni per limitare il contagio e salvare ogni vita umana possibile. Ciò su cui c’è però molta meno consapevolezza, e di cui si discute poco, è che le misure di contrasto al Covid colpiscono più duramente i giovani”. Chi scrive tra pochi mesi raggiungerà la soglia degli 80 anni e si chiede: “Che diritto ho io – che dalla vita ho ottenuto quasi tutto con facilità con il solo merito di vivere in un periodo storico probabilmente irripetibile – di sfasciare l’economia, di lasciare sulle spalle delle giovani generazioni un debito pubblico enorme, anche in conseguenza di un sistema pensionistico, a rischio di insostenibilità: tutto ciò al solo scopo di rubacchiare qualche anno di vita in più?’’. In una situazione sanitaria in cui sarei supertutelato solo se contraggo il contagio da covid-19, perché se fossi affetto da un banale carcinoma o da un malanno cardiocircolatorio, forse verrei considerato un rompiscatole a cui si chiede di ripassare.
Così, mi sono ricordato di un’altra osservazione di un intellettuale francese il cui nome ora mi sfugge. Ne cito il senso a memoria: noi non sappiamo più considerare la morte come un episodio dell’esistenza, come una manifestazione del nostro essere umani. La morte è ritenuta un errore del sistema sanitario, come se le cure dovessero garantirci l’immortalità. La mistica corrente mette in stato d’accusa i giovani, incapaci di resistere al fascino degli aperi-cena e della movida: essi, con pochi riguardi quando rincasano, infettano i nonni (come se gli avi vivessero, di norma, nello stesso appartamento).
Non intendo, però, prestarmi alla solita litania delle giovani vittime dell’egoismo degli anziani, perché, a loro, questa situazione è sempre andata benissimo, nel contesto di quella che è stata definita “la società signorile di massa’’ che, (come ha scritto Luca Ricolfi in un aggiornamento del suo pensiero) si sta trasformando in una “società assistita di massa”. Ma a questo punto mi sono rammentato di un vecchio film del 1960: “L’uomo che visse nel futuro’”, tratto dal popolare romanzo di H. G. Wells “La macchina del tempo” del 1885. Uno scienziato inglese, George Wells (interpretato da Rod Taylor), nel 1900 inventa una macchina che gli consente di andarsene in giro nel futuro. Dopo molte soste intermedie, arriva in un’epoca successiva (di oltre 326 anni) ad una devastante guerra atomica. Esplorando il mondo post-atomico, apparentemente un eden lussureggiante e tranquillizzante, Wells incontra un gruppo di ragazzi e ragazze, giovani, biondi e di bell’aspetto, che si disinteressano di tutto, illetterati e senza governo (e nessun anziano ancora in vita), senza aspirazioni e che si limitano a vivere nell’ozio consumando il cibo e i beni che trovano inspiegabilmente preparati per loro in un’antica rovina della precedente civiltà, che hanno irrimediabilmente dimenticato assieme a tutta la cultura e la scienza passate. Per farla breve Wells scopre che i sopravvissuti a quella catastrofe si erano rifugiati sotto terra e col passare del tempo erano diventati antropofagi (i mostruosi Morlok) e si cibavano dei giovani Eloi, chiamati periodicamente a raccolta dal suono di una sirena a cui essi obbedivano passivamente andando in gruppo verso il sacrificio. Nel finale lo scienziato riesce a persuadere gli Eloi a ribellarsi e a combattere, riuscendo così a cambiare – da uomo di un remoto passato – il destino dell’umanità in un futuro lontano.
Negli anni ’60 del secolo scorso c’era l’ossessione della guerra atomica che avrebbe distrutto l’umanità. Temo che l’inquietudine del “cupio dissolvi” si sia trasferita sul coronavirus.
Membro del Comitato scientifico ADAPT