Bollettino ADAPT 18 gennaio 2021, n. 2
La “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea” ha resuscitato un dibattito che si era spento nell’emergenza della pandemia. Come se il modello di relazioni industriali operante nel nostro Paese avesse avuto, con grande soddisfazione dei sindacati, un meritato riconoscimento per quanto riguarda la preferenza o quanto meno l’equipollenza della via contrattuale rispetto a quella legislativa per la fissazione dei minimi salariali. L’Italia non è più, dopo quello schema di direttiva, inadempiente rispetto alla definizione di un salario orario minimo legale, poiché – è scritto esplicitamente nel testo – “la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, o mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in 21 Stati membri”.
A proposito del nuovo indirizzo si è parlato di “svolta” senza accorgersi che il nostro problema principale non riguarda quale strumento (legislativo o contrattuale) è utilizzabile per stabilire dei livelli salariali minimi (una giurisprudenza consolidata ha ricondotto il concetto di retribuzione proporzionata e sufficiente di cui all’articolo 36 Cost. ai minimi tabellari previsti nei ccnl). Ciò che è messo in discussione (alla luce della formulazione post referendaria dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori) sono i criteri per attribuire a contratti di lavoro stipulati in regime di diritto comune quella “marcia in più” che conferisce loro una surrettizia estensione erga omnes (al di fuori delle procedure previste nell’articolo 39 Cost.). Il Cnel, nel XXII Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, affronta questa problematica nel contesto delle considerazioni svolte nel Capitolo 10 «Un progetto per il nuovo archivio della contrattazione collettiva» a cura di Marco Biagiotti, Sandro Tomaro, Larissa Venturi. “Assai più che in passato, il mondo del lavoro privato appare oggi caratterizzato da una molteplicità di soggetti (datoriali e sindacali) che fondano la propria rappresentatività – è scritto nel testo -sulla periodica autodichiarazione di dati concernenti la consistenza associativa, la diffusione territoriale e l’attività svolta e che, su tali basi, sottoscrivono tra loro accordi collettivi nazionali in tutti i settori produttivi, per poi depositarli a norma di legge presso l’Archivio nazionale dei contratti collettivi di lavoro istituito presso il CNEL”. Anzi, la frammentazione del panorama negoziale in Italia sembrerebbe oggi persino accentuata rispetto alla data del 30 settembre 2017 quando presso l’Archivio della contrattazione collettiva presso il Consiglio, risultavano censiti 868 accordi nazionali di settore “vigenti”, essendo diventati 935 al 30 giugno del 2020. Questo fenomeno è in contraddizione con quanto il legislatore ha disposto per il pubblico impiego, riducendo da 11 a 4 (funzioni centrali, funzioni locali, scuola e ricerca, sanità) i comparti contrattuali.
È noto che il Cnel ha ottenuto un importante riconoscimento (alla faccia di chi lo considera – per sentito dire – un ente inutile): il cd. decreto “semplificazioni”) ha introdotto nell’ordinamento una norma che affida un compito centrale all’Archivio del CNEL (articolo 16-quater “Codice alfanumerico unico dei contratti collettivi nazionali di lavoro”). “Nelle comunicazioni obbligatorie (omissis), il dato relativo al contratto collettivo nazionale di lavoro – stabilisce la norma – è indicato mediante un codice alfanumerico, unico per tutte le amministrazioni interessate”. Tale codice viene attribuito dal CNEL in sede di acquisizione del contratto collettivo nell’Archivio. Il tenore della nuova disposizione, che ha esteso l’ambito di applicazione del codice unico alle comunicazioni obbligatorie rese al Ministero del lavoro, evidenzia – come è spiegato nel Rapporto – la volontà del legislatore di favorire una collaborazione stabile fra tre delle principali amministrazioni pubbliche a vario titolo coinvolte nelle procedure di classificazione degli accordi collettivi di lavoro, con l’obiettivo di elaborare criteri di identificazione uniformi per ciascun accordo nazionale settoriale, che verrà utilizzato da tutti gli operatori pubblici e privati del mercato del lavoro nell’interfaccia con la pubblica amministrazione. Da un primo approfondimento compiuto in sinergia dagli uffici interessati emerge una realtà interessante: un numero molto ridotto di ccnl disciplina la stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro dipendente in tutti i settori.
Il CNEL storicamente raggruppa i ccnl del settore privato in quattordici settori contrattuali e per dodici di questi è possibile associare a ciascun ccnl il numero di lavoratori a cui si applica grazie al collegamento, di recente realizzato, con le informazioni contenute nelle dichiarazioni mensili dei datori di lavoro sul ccnl applicato ai propri dipendenti. Se in ciascuno di tali dodici settori si prende in considerazione il contratto collettivo maggiormente applicato, si nota che questi ccnl numericamente prevalenti coprono da soli il 50% di tutti i lavoratori dipendenti per i quali esistono dichiarazioni. Inoltre, se in ciascuno di tali dodici settori prendiamo in considerazione solo i primi cinque ccnl che, in base alle dichiarazioni, risultano maggiormente applicati, si vede che 60 contratti coprono l’89% i tutti i lavoratori dipendenti, mentre i restanti 796 contratti nazionali (tra i quali, induttivamente, è plausibile supporre che si annidino quelli a più elevato rischio di dumping) risultano applicati soltanto all’11% della platea dei lavoratori dipendenti ricavabile dalle dichiarazioni. I ccnl sottoscritti sia da organizzazioni datoriali che sindacali rappresentate al CNEL sono 128 (pari al 15% del totale dei ccnl depositati) e si applicano a 11.736.881 lavoratori dipendenti, pari all’88,4% del totale. Per contro, i 336 ccnl in cui nessuna delle organizzazioni datoriali e sindacali è rappresentata al CNEL (39,3% del totale) si applicano a 29.243 lavoratori dipendenti, pari a circa lo 0,2% del totale. Si direbbe allora che basti la realtà a separare il grano dal loglio: la contrattazione collettiva “sana” da quella “pirata”.
D’altra parte, tuttavia, il semplice dato sull’estensione della platea applicativa di un ccnl – ammette il CNEL – non può essere ritenuto, di per sé, discriminante nello stabilire un confine di natura qualitativa fra accordi dello stesso settore, dal momento che il numero più o meno elevato di dipendenti può corrispondere a specifiche caratteristiche della tipologia produttiva cui un certo accordo collettivo fa riferimento. Anche perché quella collettiva nazionale non è più il perimetro vincolato della contrattazione come lo era nel periodo corporativo; è una scelta che rientra nella libertà dell’organizzazione sindacale sancita dal primo comma dell’articolo 39 Cost., ma non è “più legittima” di un’altra, soprattutto dopo che la mutilazione dell’articolo 19 della legge n.300/1970 ha conferito al contratto applicato in azienda il passepartout per l’accesso ai diritti sindacali a favore dell’organizzazione stipulante. Come nel gioco dell’oca – anche dopo la Proposta della direttiva europea – si torna sempre alla casella di partenza: alla questione della rappresentanza e della rappresentatività sindacale ai fini della stipula di contratti collettivi con efficacia erga omnes. Una terra di nessuno presidiata dall’articolo 39 Cost.: una sorta di Ghino di Tacco (un personaggio evocato durante la Prima Repubblica) che si ostina a presidiare il passo che gli fu assegnato dai Padri costituenti, nonostante che il traffico da decenni abbia scelto degli altri percorsi.
Membro del Comitato scientifico ADAPT