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Bollettino ADAPT 18 gennaio 2021, n. 2
Che il 2020 abbia rappresentato l’anno di svolta per il lavoro da remoto è cosa ormai nota. Se infatti, a causa della pandemia da Covid-19, molti lavoratori si sono ritrovati, nell’arco di poche ore, a svolgere le proprie mansioni da casa, l’attenzione pubblica sembra essersi concentrata non solo sulle opportunità date dalla nuova modalità di lavoro, bensì anche sulle difficoltà che questa comporta.
Se fino a qualche mese fa i tempi non erano ancora considerati maturi, a fronte della condizione pandemica che abbiamo vissuto, oggi sembra possibile individuare le direzioni in cui le parti sociali dovrebbero virare per rendere il mondo del lavoro da remoto più equo, inclusivo e sostenibile.
A tal proposito, l’ILO, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ha recentemente diffuso un rapporto riguardante le modalità di lavoro da remoto e le sue implicazioni.
Nello specifico, il rapporto si riferisce a tre tipologie di lavoro svolto da casa, distinte tra loro: il lavoro industriale a domicilio (produzione di fabbrica o di prodotti artigianali), il telelavoro (svolgimento dell’attività lavorativa per mezzo di tecnologie dell’informazione e della comunicazione) e, infine, il lavoro da casa su piattaforma digitale (i cosiddetti crowdworkers che, non avendo le caratteristiche per essere considerati lavoratori autonomi a sensi della legislazione nazionale, svolgono le proprie mansioni in base a specifiche del datore di lavoro).
Tuttavia, soffermandoci sul profilo definitorio, merita richiamare la Convenzione ILO n. 177 sul lavoro a domicilio e la Raccomandazione n.184 del 1996, le quali definiscono il lavoro a domicilio come “lavoro svolto da una persona…(i) nella propria casa o in altri locali di sua scelta, diversi dal luogo di lavoro del datore di lavoro; (ii) dietro compenso; (iii) che si traduce in un prodotto o un servizio come specificato dal datore di lavoro, indipendentemente da chi fornisce le attrezzature, i materiali o altri elementi utilizzati a tal fine” specificando che la presente definizione non concerne quei lavoratori che sono dotati del “grado di autonomia e di indipendenza economica necessario per essere considerati lavoratori indipendenti ai sensi della legislazione nazionale o di decisioni giudiziarie”.
Nel gergo comune, quando si parla di lavoro da casa, generalmente, si fa riferimento, in prima analisi, al telelavoro e/o smart working (per un approfondimento si veda M. Tiraboschi, Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa via italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, DRI 4/2017, pp. 921 ss.); questo perché, probabilmente, nei paesi ad alto reddito è la tipologia maggiormente diffusa. Nonostante ciò, così come specificato nel rapporto, “il lavoro da casa esiste in tutto il mondo”: ma mentre nei paesi in via di sviluppo, particolarmente in Asia, i lavoratori che svolgono lavoro da remoto sono impiegati nel settore manifatturiero, dall’abbigliamento all’elettronica, nei paesi sviluppati, a partire dalla seconda metà del XX secolo, l’esternalizzazione dei servizi attraverso le piattaforme digitali ha permesso la diffusione del lavoro da casa in altri settori, dalle assicurazioni al turismo.
Possiamo considerare il lavoro da casa una risposta alle necessità di un mercato in continua evoluzione, dove le regole della concorrenza cambiano costantemente e le imprese si ritrovano nella condizione di ricorrere a forme di lavoro intensamente flessibili che prevedono una scomposizione delle mansioni, accesso a un capitale dal costo sostanzialmente basso e, infine, disponibilità di manodopera.
Ed è proprio quest’ultimo requisito, la disponibilità di manodopera, che apre nuovi dibattiti circa i ruoli di genere.
Anche se l’opportunità di una maggiore flessibilità è, infatti, accolta sia da uomini, donne e lavoratori con disabilità, non c’è da stupirsi se, quando si leggono i dati riferiti al 2019, è evidente che la maggior parte di lavoratori da casa sono donne (l’11,5% contro il 5,6% degli uomini) facendosi così ancora carico della maggior parte delle responsabilità domestiche nel tentativo di governare la complessità sottesa alla cd. “conciliazione vita-lavoro”.
Ma chi sono e dove è collocata geograficamente questa tipologia di lavoratori ce lo spiega il rapporto, coadiuvato da una serie di grafici. In primo luogo, è in Asia e nel Pacifico che ne troviamo la maggior parte, ben il 65% dei 166 milioni di lavoratori da remoto nel mondo. Se, invece, si guarda ad occidente, le stime sono nettamente inferiori: basti vedere l’Italia che ha una percentuale di lavoratori che lavorano da casa pari a meno del 5%.
Tuttavia, nei paesi con un livello di reddito basso e medio, i più sono lavoratori autonomi, nei paesi con un livello di reddito alto, sono i dipendenti a rappresentare la maggioranza.
Anche se la platea è eterogenea, dai lavoratori industriali a domicilio a basso reddito ai telelavoratori altamente qualificati ad alto reddito, tutti si trovano nella medesima condizione di affrontare le numerose implicazioni che questa modalità di svolgimento dell’attività lavorativa comporta.
Una prima sfida è la flessibilità in termini di orario da lavoro, che se, da una parte, rappresenta uno dei vantaggi maggiori, dato che generalmente le giornate lavorative sono più brevi rispetto a quelle dei colleghi in ufficio, dall’altro, comporta un’incertezza dell’orario stesso.
Ad esempio, per i lavoratori industriali a domicilio e i lavoratori delle piattaforme digitali si possono alternare periodi di intensa attività lavorativa a periodi di scarso lavoro; mentre per i telelavoratori questa incertezza si traduce in un labile confine tra vita privata e professionale.
Una seconda riguarda la protezione sociale: infatti, per i lavoratori industriali a domicilio e i lavoratori delle piattaforme digitali, se, in alcuni casi, è presente una legislazione in materia, questa non viene applicata, in altri, questi, venendo inquadrati come lavoratori autonomi, non sono coperti dalla legge.
Infine, in materia di salute e sicurezza, le conseguenze non sono irrilevanti: da un lato, chi lavora nel settore manifatturiero utilizza prodotti chimici o altri strumenti che, non solo, non sono adeguati a un ambiente domestico, ma talvolta non sono rispettate le norme di sicurezza che prevedono dispositivi di protezione. Dall’altro lato, i telelavoratori sono maggiormente esposti a rischi ergonomici (che possono tramutarsi in patologie muscolo-scheletriche) e/o psicosociali (come ad esempio l’isolamento o lo stress lavoro-correlato).
In questa prospettiva, l’auspicio della Convenzione n. 177 e della Raccomandazione n.184 è proprio quello di promuovere una parità di trattamento tra coloro che lavorano da casa e i loro colleghi in ufficio.
Garantire una protezione legislativa e fare in modo che questa vada a proteggere concretamente i lavoratori significa, anche, superare l’informalità che caratterizza tali tipologie di lavoro, in particolar modo, i lavoratori delle piattaforme digitali.
Anche se sono molti i paesi che hanno adottato una legislazione a tal proposito, queste hanno fornito solo risposte incomplete; per rendere dignitose le condizioni di questi lavoratori, è fondamentale che gli Stati nazionali pongano in essere un’azione politica di concreto miglioramento delle stesse, partendo da un maggior rispetto delle regole vigenti, sensibilizzando così i lavoratori circa i loro stessi diritti.
Uno dei temi che, ad esempio, affronta l’Organizzazione, riguardo i lavoratori industriali a domicilio, è quello di fissare un equo tasso di retribuzione a cottimo in modo da determinare il tempo standard che è richiesto per svolgere una mansione, e valutare, così, il compenso che dovrebbe essere pagato per il numero corrispondente di ore lavorate. Questo metodo potrebbe essere anche uno strumento per imporre un limite orario e diminuire l’incidenza del lavoro minorile in casa, spezzando, così, il ciclo della povertà. A favore dei lavoratori delle piattaforme digitali si incoraggia una maggiore chiarezza sulla legislazione applicabile e si sostiene una collaborazione tra piattaforme e Governi nazionali al fine di combattere gli effetti psicosociali “derivanti dal lavoro di moderazione dei contenuti”. I telelavoratori dovrebbero, invece, vedersi garantita la parità di trattamento tra chi lavora da remoto e chi in ufficio. Non solo, sarebbe importante riconoscere (e attuare concretamente) una serie di diritti, come quello alla “disconnessione”, per garantire il confine tra vita privata e professionale.
In particolar modo, nell’ultimo anno, al fine di contenere la diffusione del Covid-19, questo paradigma organizzativo, nelle sue molteplici sfaccettature, ha portato con sé tante opportunità quante importanti sfide. Il lavoro da casa ha permesso di spostare il lavoro e non chi lavora, ma è stata proprio questa esperienza che ci ha dimostrato come il lavoro da remoto non significa solo “rimanere a casa” o risparmiare sui costi dell’impresa, bensì significa reindirizzare le risorse al fine di formare adeguatamente i lavoratori a svolgere la propria mansione da remoto e introdurli in un quadro legislativo che concretamente li vada a proteggere sotto ogni aspetto, dal diritto alla salute e alla sicurezza a quello, ad esempio, della protezione sindacale.
Ad oggi l’applicazione del lavoro da casa è senz’altro imperfetta; se pensiamo ai paesi in via di sviluppo facciamo riferimento a Stati dove i diritti dei lavoratori sono deboli, di conseguenza, è ancora più complesso garantirli a lavoratori che vengono inquadrati come autonomi e che svolgono mansioni non “direttamente misurabili”.
Se invece si guarda ai paesi sviluppati, sicuramente, la tutela giuridica è più robusta ma ancora piena di lacune per i telelavoratori; oltre ad astratti principi giuridici, sono pochi i diritti effettivi di un lavoratore da remoto. Nonostante ciò, tra questi, merita ricordare il diritto alla disconnessione previsto dalla disciplina francese che ha come obiettivo quello “d’assurer le respect des temps de repos et de congé ainsi que de la vie personnelle et familiale”1; diritto che, ormai, è stato recepito anche nella legislazione italiana (per un approfondimento si veda E. Dagnino, Il diritto alla disconnessione nella legge n. 81/2017 e nell’esperienza comparata, DRI 4/2017, pp. 1024 ss.)
Infine, se quella che per noi è la frontiera della nuova modernità (lo smart work), nelle diverse latitudini della geografia del lavoro si manifesta in forme eterogenee e contraddittorie richiamando certamente fenomeni nuovi ma anche il vecchio lavoro domiciliare con tutti i suoi problemi. Da qui l’esigenza di un assetto di regole e tutele che sappia far emergere questi fenomeni spesso invisibili e li attragga nell’area del lavoro dignitoso a prescindere dalle forme giuridiche con cui si manifesta.
Le parti sociali tutte, dai governi ai sindacati dei lavoratori e quelli datoriali rivestono un ruolo fondamentale nel garantire la tutela dei diritti dei lavoratori da remoto, rendendo concreto il principio di parità di trattamento tra i lavoratori che eseguono la propria prestazione all’interno dei locali aziendali e quelli che la svolgono da remoto.
Sensibilizzare i lavoratori, favorire la protezione giuridica, partecipare alla contrattazione collettiva e ripensare il sistema di salute e sicurezza a fronte dei nuovi luoghi di lavoro, sono le chiavi fondamentali per migliorarne le condizioni; se a queste si aggiungessero la garanzia di una copertura previdenziale e un programma di formazione continua, considerando che coloro che lavorano da casa hanno minor accesso alla formazione rispetto ai loro colleghi in azienda, andando così ad incidere sulle prospettive di carriera, si potrebbe giungere a una tutela completa che assicurerebbe ai lavoratori da casa il passaggio dall’invisibilità al lavoro dignitoso.
ADAPT Junior Fellow
1Art. L2242-8, n. 7, Code du Travail