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Bollettino ADAPT 7 giugno 2021, n. 22
La revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro è stata introdotta per la prima volta con la legge n. 92/2012, con scopo deflazionistico del contenzioso giudiziario e per consentire al datore di lavoro una sorta di “comodus discessus” nell’ipotesi in cui si avveda, nei giorni immediatamente successivi al licenziamento, della sussistenza di cause o circostanze ostative che potrebbero far dichiarare lo stesso invalido o inefficace.
Nel portare a compimento la riforma dell’art.18 della legge n. 300/1970, la legge Fornero ha infatti previsto che nell’ipotesi di revoca del licenziamento, “purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo“, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, non trovando peraltro applicazione i “regimi sanzionatori” previsti dalla legge per il licenziamento illegittimo (art. 18, comma 10 St. Lav.).
Identica disposizione è stata introdotta dal legislatore del Jobs Act con l’art. 2 del D.lgs n. 23/2015, fatte salve alcune (parziali) modifiche, che riguardano le modalità di calcolo delle indennità spettanti (per le quali si fa riferimento alle “retribuzioni utili per il calcolo del trattamento di fine rapporto”) e l’applicabilità della revoca anche alle ipotesi di licenziamento motivato dalla disabilità fisica o psichica del lavoratore, ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68.
L’ampia formulazione delle due norme lascia intendere che la revoca abbia efficacia sia nell’ipotesi di nullità assoluta che in quella della ingiustificatezza del licenziamento, ancorchè, nel primo caso, il rapporto di lavoro non necessiti tecnicamente di essere “ripristinato” in quanto l’atto datoriale di recesso non è idoneo, ai sensi dell’art.1418 c.c., a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro. Il legislatore del periodo COVID è intervenuto a sua volta su questa materia, con motivazioni che sfuggono all’interprete, introducendo una deroga specifica al comma 10 dell’art.18 dello Statuto die Lavoratori, attraverso uno dei primi decreti “emergenziali”. L’art. 46 del decreto-legge n. 18/2020, al comma 1-bis, stabiliva infatti (testualmente) che “il datore di lavoro che, indipendentemente dal numero dei dipendenti, nel periodo dal 23 febbraio 2020 al 17 marzo 2020 abbia proceduto al recesso dal contratto di lavoro per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, può, in deroga alle previsioni di cui all’articolo 18, comma 10, della legge 20 maggio 1970, n. 300, revocare in ogni tempo il recesso purché contestualmente faccia richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento. In tal caso, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri né sanzioni per il datore di lavoro”.
La disposizione introduceva una deroga “temporale” (la revoca del licenziamento poteva essere eseguita “in ogni tempo”) ed una condizione essenziale per la validità ed efficacia della revoca stessa (la contestuale richiesta del datore di lavoro del “trattamento di cassa integrazione salariale” a favore del lavoratore licenziato). I successivi decreti non hanno (fortunatamente, per quanto si dirà) reiterato questa disposizione, che dunque ha avuto vigenza nel solo periodo intercorrente tra il 23 febbraio e il 17 marzo 2020. Della stessa, infatti, non si trova traccia nel decreto-legge n. 34/2020 (Decreto Rilancio), nel decreto-legge n. 104/2020 (Decreto Agosto), nel decreto-legge n. 137/2020 (Decreto Ristori), nel decreto-legge n. 41/2021 (Decreto Sostegni) nè all’interno dell’ultimo decreto-legge n. 56/2021 (Decreto Sostegni Bis), che hanno prorogato il blocco dei licenziamenti, attualmente stabilita al 28 agosto 2021 per le imprese che, entro giugno, ricorreranno alla Cassa integrazione Covid ed al 31 ottobre 2021 per le imprese minori che non usufruiscono della CIG.
Diversi – e tutti ben motivati – sono stati i rilievi posti alla “revoca” del licenziamento secondo la formulazione introdotta dal decreto-legge n. 18/2020, i cui effetti, come più avanti si dirà, non possono essere considerati integralmente estinti. Anzitutto perché la misura appariva limitata ai soli soggetti ai quali si applica la disciplina dell’art.18 della legge n. 300/1970, escludendo quindi i lavoratori assunti successivamente all’entrata in vigore del D.lgs n. 23/2015. In immediata successione, in quanto il riferimento all’attivazione del “trattamento di cassa integrazione salariale” esclude, di fatto, i lavoratori che non beneficiavano di questa misura e che usufruivano di altre misure previste dalla normativa emergenziale (F.I.S, Enti Bilaterali, etc.).
Si aggiunga a ciò l’obbligo del datore di lavoro di attivare la CIG anche laddove non ve ne fossero i requisiti tecnici (impresa minore o non industriale) e/o economici (impresa attiva), non considerando l’ipotesi in cui l’impresa non aveva subito chiusure o rallentamenti produttivi dovuti all’emergenza sanitaria. Con conseguenti danni non solo all’impresa stessa, tenuta ad attivare una procedura incerta sotto il profilo legale ed amministrativo, ma anche allo stesso lavoratore – in favore del quale la norma appariva prevalentemente rivolta – che si vedeva erogata la sola indennità CIG anziché la retribuzione piena.
Restringendo comunque il tema ai “fondamentali” – abbastanza trascurati in questo periodo di normazione emergenziale – va rilevato che la revoca ex art.46 del decreto-legge n. 18/2020 è decaduta ipso iure “per dichiarazione espressa del legislatore” (art. 15 delle Disposizioni Preliminari), atteso che la stessa norma aveva durata “temporale”, con previsione di un periodo di vigenza. Va contestualmente osservato che in base ad altro principio fondamentale, posto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale (c.d. “tempus regit actum”), il fatto o l’atto giuridicamente rilevante è assoggettato alla normativa vigente nel momento in cui esso si verifica. Ne consegue che, pur in presenza di norma decaduta per intervenuta scadenza del termine di vigenza, i licenziamenti operati nel periodo della sua efficacia potrebbero ancora essere revocati, avendo la stessa norma introdotto una specifica previsione ad efficacia dichiaratamente ultrattiva (“in ogni tempo”), che travalica la vigenza della norma stessa.
Si potrebbe quindi ragionevolmente sostenere che l’impresa che abbia licenziato il lavoratore nell’arco temporale di vigenza dell’art. 46 del del decreto-legge n. 18/2020 abbia ancor oggi la facoltà di ripristinare il rapporto di lavoro “senza oneri e sanzioni”. Ammesso, col beneficio del dubbio, che questa sia l’interpretazione corretta, ulteriore difficoltà interpretativa è posta dal lessico utilizzato dal Legislatore, che collegava alla revoca del licenziamento l’esenzione (a favore dell’impresa revocante) da “oneri” e “sanzioni”.
Quanto alle “sanzioni”, l’espressione richiama quella del “regime sanzionatorio” utilizzata dal richiamato comma 10 dell’art. 18, che riguarda il risarcimento del danno dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Un maggior dubbio interpretativo pone invece l’uso (e il contenuto) del termine “oneri”, la cui incerta definizione apre all’ipotesi che il legislatore abbia inteso far riferimento non solo agli “oneri contributivi e assistenziali”, ma anche – attesa l’ampia formulazione della norma – ad ogni ulteriore tipo di onere, non escluso quello delle indennità retributive e relativi interessi legali e moratori. Attraverso un’interpretazione logico-sistematica, si potrebbe infine sostenere invece che tra gli “oneri” esclusi non sia compreso l’obbligo del pagamento, a favore del lavoratore reintegrato, di una somma corrispondente a quella al mancato percepimento della CIG, da calcolarsi, per quantità e durata, sulla base delle vigenti disposizioni di legge.
Un ultimo dubbio si pone sull’applicabilità al caso de quo della facoltà prevista dal comma 3 dell’art.18 legge n. 300/1970, costituita dal pagamento a favore del lavoratore, su sua richiesta, di un’indennità pari a 15 mensilità di retribuzione, in alternativa al reintegro del posto di lavoro. Ancorchè, infatti, detta misura sia prevista al termine (ed all’esito) di un procedimento giudiziario favorevole al lavoratore, è indubbio che la ratio sia la medesima (scambio tra indennità risarcitoria e ripristino del rapporto di lavoro) e che, peraltro, l’art.46 del decreto-legge n. 18/2020 deroghi esclusivamente al comma 10 e non anche al comma 3 dell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Fermo restando, ovviamente, che anche l’indennità sostitutiva potrebbe rientrare nell’elenco “onnicomprensivo” degli “oneri e sanzioni” dai quali il datore di lavoro “operosamente pentito” è esentato per esplicita disposizione di legge.
Pervenire ad una conclusione certa non è, ancora una volta, né facile né agevole, soprattutto in questo periodo di confusione normativa. Così come incerto resta l’effetto della prescrizione dell’azione nell’ipotesi in cui il Giudice, adito dal lavoratore, rilevi la nullità del licenziamento per contrarietà a norma inderogabile di legge, con tutti gli effetti conseguenti, di natura sia giuridica che economica. Motivo in più per depennare al più presto questa misura “derogatoria” (a dir poco frettolosa) adottata dal legislatore emergenziale, confidando che i casi di “revoca”, medio tempore attuati, siano limitati, ovvero che abbiano trovato soluzioni stragiudiziali di buon senso e non contenziose.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow