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Bollettino ADAPT 29 novembre 2021, n. 42
Ancora una volta, la realtà ci svela che esiste il “cigno nero”. L’evento non previsto è dato da un’impennata di dimissioni di quei lavoratori che scelgono di lasciare il proprio posto di lavoro. Il cui possesso, nel sistema italiano, è considerato alla stregua di un bene molto prezioso.
Durante l’emergenza da Covid-19, il dibattito pubblico si è concentrato soltanto sui licenziamenti per motivi economici, cioè sui recessi dei datori per ragioni oggettive dell’impresa. Ma, con la fine del blocco dei licenziamenti e la ripresa delle attività produttive, il problema numero uno del mercato del lavoro è un altro: le assunzioni. Da un lato, c’è il fenomeno del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, di cui ho già scritto su questo quotidiano.
Dall’altro lato, c’è l’aumento della rinuncia volontaria del lavoratore al proprio posto di lavoro, che voglio indagare. E farlo con la consapevolezza che le dimissioni (senza un’alternativa di un nuovo posto di lavoro) sono un salto nel vuoto dato che il dimissionario non ha diritto al sostegno dell’indennità di disoccupazione.
Il fenomeno, imprevisto, ha assunto dimensioni mondiali: dalla “Great Resignation” degli Stati Uniti alle “Grandi dimissioni” del nostro Paese (rilevate dal secondo trimestre 2021). Seppur con una significativa diversità di contesto data dalle dinamiche del mercato del lavoro e delle transizioni occupazionali. Anche nel Friuli Venezia Giulia sono aumentate le dimissioni volontarie.
Per ora si conoscono i dati grezzi. Non sappiamo se l’impennata di dimissioni proseguirà. E soprattutto non conosciamo i motivi, il genere, l’età, i settori e le professionalità coinvolte. Tuttavia, sulla scorta di uno studio della Banca d’Italia (2020), possiamo anticipare che non c’è un’unica lettura.
Il fenomeno potrebbe essere pro-ciclico (come indicano i dati di Veneto Lavoro): le dimissioni aumentano con la ripartenza della domanda di lavoro e quindi sono transizioni positive. Inoltre queste riallocazioni potrebbero determinare un aumento dei salari. Quindi le dimissioni potrebbero indicare un mercato del lavoro in salute. Ma non dobbiamo dimenticare che, in Italia, il tasso di disoccupazione (e di inattività) è molto elevato, specie per giovani e donne, e il nostro mercato del lavoro non è molto dinamico. Oppure le dimissioni potrebbero confermare un mercato del lavoro in crisi, popolato da aziende con una cattiva gestione delle risorse umane, con un livello retributivo medio basso e “fuori mercato”, così come (e sempre di più) con ritmi produttivi impegnativi e stressanti che spingono il personale a ricercarsi una nuova occupazione.
Ed ancora il mercato del lavoro – a causa dell’esperienza della pandemia – potrebbe cambiare pelle, con una sorta di sommovimento motivazionale, con un cambiamento del valore del lavoro, sull’onda del “si vive una sola volta”.
Se così è, è importante che le dimissioni siano una scelta consapevole della persona che lavora. E non nascondano pressioni, indebite e abusive, da parte del datore per liberarsi dei dipendenti. Di più. È fondamentale che il consenso del lavoratore, spesso della lavoratrice, sia effettivamente genuino. Non di rado, infatti, la volontà di rinunciare al bene del posto di lavoro (e addirittura alla propria vita professionale) derivi da esigenze personali – in primo luogo di carattere familiare – a causa degli ostacoli incontrati nel tentativo di conciliare l’attività lavorativa con le vita familiare, in primis per le esigenze di cura.
Il legislatore, per decenni, si è disinteressato del recesso del lavoratore, ad eccezione delle dimissioni della lavoratrice, madre o sposa, a rischio di discriminazioni. Soltanto dal 2007, consapevole dell’odiosa pratica delle dimissioni “in bianco” (cioè senza data), ha tamponato il vuoto, ma muovendosi a tentoni e con una regolamentazione farraginosa. Finalmente il Jobs Act (decreto legislativo n. 151/2015), imparando dagli errori, ha previsto un vincolo (non perfetto, ma) equilibrato per bloccare le pratiche abusive.
Si confida, pertanto, che le regole vigenti garantiscano un’effettiva tutela della volontà del lavoratore e della lavoratrice di dimettersi. Ma non basta. Bisogna garantire anche il dopo-dimissioni: cioè le transizioni lavorative. Il che rende ancor più necessaria vuoi l’attivazione di politiche attive del lavoro, che mancano o che sono fragili, vuoi la creazione di un contesto socio-economico sempre più̀ attento alle pratiche che garantiscono un equilibrio tra attività̀ professionale e vita familiare, in sintonia con la Direttiva UE 2019/1158 (in attesa di attuazione).
Marina Brollo
Ordinaria di diritto del lavoro
Università degli Studi di Udine
@MarinaBrollo
*Pubblicato anche su Il Messaggero Veneto del 28 novembre 2021