Bollettino ADAPT 14 febbraio 2022, n. 6
All’Assemblea organizzativa della Cgil, svoltasi a Rimini nei giorni scorsi, si è avvertito il rumore sinistro dei venti di guerra che spirano nel cuore dell’Europa. Questa atmosfera pesante non è dipesa soltanto dalla lectio magistralis di geopolitica (ottima iniziativa) di Lucio Caracciolo, ma soprattutto dal tono duro e dagli argomenti agitati come una clava – a destra e a manca – nelle relazioni e negli interventi. Se le affermazioni udite e i proposti annunciati dovessero – come si dice adesso – “atterrare” nella realtà, il diritto del lavoro e il sistema delle relazioni industriali sarebbero radicalmente modificati, al punto che l’Assemblea di Rimini (in quei paraggi iniziò pure la marcia su Roma di Giulio Cesare) diventerebbe una discriminante del “prima” e del “dopo”.
Ha cominciato Maurizio Landini, nella relazione d’apertura, a picconare l’assetto del mercato del lavoro. “Nel confronto col governo e le imprese vogliamo lanciare un messaggio secco: basta precarietà” – ha scandito il leader della Cgil – “Bisogna porre fine a questa forma di lavoro che impedisce qualsiasi progetto di vita a tanti giovani, tante donne, che ostacola la crescita e lo sviluppo del Mezzogiorno. Basta precarietà vuol dire cancellare forme di lavoro che negano la dignità delle persone e ne favoriscono lo sfruttamento”. Ed ecco le soluzioni indicate dalla Cgil: “introdurre un contratto unico di inserimento al lavoro a contributo formativo e finalizzato alla stabilità occupazionale; condizionare i finanziamenti e le agevolazioni pubbliche alle imprese alla stabilità del lavoro; superare il principio aberrante che si può essere poveri lavorando. Basta precarietà – ha affermato ancora Landini – significa che nelle imprese, nei luoghi di lavoro pubblici e privati, vanno aperte vertenze per la stabilizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori precari”. La battaglia contro la precarietà “deve diventare la carta d’identità del sindacato confederale”.
Pierpaolo Bombardieri, leader della Uil, nel suo intervento di saluto, ha confermato la nuova linea della sua confederazione di stretta alleanza con la Cgil (consolidata nello sciopero generale del 16 dicembre), con punto di scavalcamento su posizioni più radicali. Bombardieri ha chiesto al governo di seguire l’esempio della Spagna dove i contratti a termine sono stati aboliti. Ovviamente raccontando una mezza verità (che è poi nello stesso tempo una mezza bugia). La situazione di quel paese è molto diversa dalla nostra, in quanto la quota di lavoro a termine è ora pari al 25% dei rapporti di lavoro subordinato (in Italia, in linea con la media europea, siamo stabilmente intorno al 12-13%). Poi le assunzioni a termine fanno parte della fisiologia del lavoro per sostituire lavoratori o affrontare lavori stagionali e picchi produttivi. È quanto si è stabilito in Spagna, su impulso della Commissione europea che aveva condizionato l’erogazione della prima tranche (12 miliardi) del Recovery fund ad una riforma del mercato del lavoro. I contratti a termine non potranno durare più di sei mesi (o un anno in presenza di accordi collettivi) e potranno essere utilizzati dalle imprese per non più di 90 giorni in un anno. Ma ciò che sarebbe corretto chiarire riguarda la disciplina del licenziamento individuale.
In Spagna, se il Giudice del lavoro, su ricorso del lavoratore, considera il licenziamento “improcedente” (illegittimo), condanna l’azienda a pagare al dipendente licenziato una indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Non sembrano necessarie molte spiegazioni per individuare le differenze con l’ordinamento del recesso vigente in Italia (compreso quanto previsto nel contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al dgls n. 23/2015). Ma la miccia più pericolosa accesa da Bombardieri ha riguardato la questione del rapporto tra retribuzioni e inflazione, alla luce della fiammata dell’energia, delle materie e dei servizi.
In parole semplici il leader della Uil ha affossato il Patto della fabbrica, siglato in pompa magna il 9 marzo 2018, nel quale erano state raccolte tutte le più importanti liturgie di in ventennio di negoziati con la Confindustria. Con un’inflazione del 5% – è la sua tesi – il Patto non esiste più. Un ukase che ha fornito il destro a Landini, nelle conclusioni, per tornare sull’argomento e aprire una polemica con il presidente della Confindustria Carlo Bonomi che, naturalmente, non è disposto a rivedere i criteri con i quali, nel fissare i minimi tabellari nei contratti nazionali, si tiene conto dell’inflazione al netto – come si diceva a suo tempo – di quella importata (i prezzi dell’energia). Il problema dell’adozione di un nuovo criterio (IPCA) fu (im)posto nel 2009 dalla Confindustria a fronte di una forte crescita dei costi del petrolio. Si arrivò ad un accordo non sottoscritto dalla Cgil; poi i dissensi si appianarono anche perché – col passare del tempo – l’inflazione sembrava essere un ricordo di un’altra epoca, finita per sempre. Tanto che alla lettera H) del punto 5 del Patto della fabbrica fu stabilito quanto segue:
‘’H) il contratto collettivo nazionale di categoria individuerà i minimi tabellari per il periodo di vigenza contrattuale, intesi quali trattamento economico minimo (TEM). La variazione dei valori del TEM (minimi tabellari) avverrà – secondo le regole condivise, per norma o prassi, nei singoli CCNL – in funzione degli scostamenti registrati nel tempo dall’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi membri della Comunità europea, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati come calcolato dall’Istat. Il contratto collettivo nazionale di categoria, in ragione dei processi di trasformazione e o di innovazione organizzativa, potrà modificare il valore del TEM’’.
“Di fronte al problema dei contratti nazionali e della crescita del salario e dell’inflazione – ha attaccato a testa bassa Landini – Bonomi risponde dicendo no, non va cambiato nulla, perché l’unico luogo in cui devono crescere i salari con la produttività è laddove si fa la contrattazione aziendale, questa è una cosa non accettabile. Non perché siamo contro la contrattazione aziendale – aggiunge – ha scandito il segretario generale della Cgil – ma sappiamo che in un Paese con tante piccole e medie imprese, dove la maggioranza dei lavoratori non ha contrattazione aziendale, se non sono i contratti nazionali che tornano ad avere un’autorità salariale e a porsi il problema di aumentare il valore reale dei salari, questo vuol dire accettare la programmazione e la riduzione dei salari”.
Poi, tornando sul tema dell’indicatore IPCA, Maurizio Landini ha aggiunto: “Trovo singolare che, fino a che non c’era il costo dell’energia a questi livelli andavano benissimo anche quegli indicatori, perché quei vantaggi erano serviti all’impresa ad aumentare i profitti (ovvero, lo “sterco del diavolo”, secondo il sindacalista, ndr) e adesso che si apre un altro tema, e che quegli indicatori riducono anche i salari dei lavoratori, si dice che vanno benissimo perché non è il momento di redistribuire i profitti che, nel frattempo, hanno fatto sul lavoro dei lavoratori”.
Che vi siano dei problemi molto seri è evidente; così vanno comprese le preoccupazioni dei sindacati. Ma basterebbe riflettere sulla vicenda della “scala mobile” (l’indicizzazione automatica delle retribuzioni al costo della vita) per rendersi conto di un dato ineludibile: se si innescasse una rincorsa delle retribuzioni a trend inflazionistici tanto accelerati si finirebbe in breve – consolidandone i corsi – per arrivare a tassi insostenibili per l’economia e la competitività dell’apparato produttivo. In sostanza, sotto queste “forche caudine” il paese è già passato (e ha rischiato di rimanervi intrappolato) e si è reso conto che l’inflazione è la vera nemica dei percettori di un reddito fisso. Diventa difficile, però, chiedere ai lavoratori di avere pazienza, perché in attesa di una nuova fase di rinnovo dei contratti nazionali con piattaforme che hanno mandato a quel paese l’IPCA, potrebbero scatenarsi rivendicazioni purchessia a livello di impresa, favorite dalle tensioni presenti sul mercato del lavoro dal lato dell’offerta.
In questo quadro abbastanza complesso forse potrebbe servire una manovra di natura fiscale, magari transitoria in vista delle possibili evoluzioni della crisi.
Nel 2022, grazie alla riforma dell’IRPEF, variano anche le soglie di reddito per la no tax area. Per i pensionati niente tasse fino a 8.500 euro di reddito da pensione, per i redditi da lavoro autonomo o assimilato la no tax area sale a 5.500 euro. Per i lavoratori dipendenti, invece, rimane a 8.000 euro. Per questi ultimi (almeno) la no tax area potrebbe essere aumentata (sulla base di un indicatore medio) in rapporto a quanto incide sull’inflazione l’incremento dei prezzi dell’energia. Peraltro le imposte si pagano l’anno dopo per quello precedente e così si opererebbe a posteriori su dati di fatto. A chi scrive, una misura siffatta sembrerebbe più sostenibile ed efficace (comunque complementare) rispetto ai ripetuti stanziamenti per alleggerire l’onere delle bollette per le famiglie e le imprese.
Membro del Comitato scientifico ADAPT