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Bollettino ADAPT 11 aprile 2022, n. 14
Appare questione assai delicata individuare la linea di demarcazione tra la libera contrattazione che avviene tra il datore di lavoro e il lavoratore (ivi inclusa la possibilità di valutare la convenienza o meno di soggiacere al vincolo contrattuale rispetto al contesto) e la sua declinazione patologica, cioè il reato di estorsione di cui all’art. 629 c.p., il quale si configura nel momento in cui “chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno”.
Eppure, comprendere tali differenze appare quanto mai utile in un ordinamento come quello italiano, in cui il mercato del lavoro risulta largamente caratterizzato da salari ridotti, una gestione dell’orario di lavoro talvolta estremamente flessibile e il perdurante dilagare dei contratti pirata (per una ricerca empirica in materia, cfr. G. Piglialarmi, Anatomia della contrattazione collettiva pirata. Spunti di riflessione da una ricerca sui contratti Cisal e Confsal, in DRI, 2021, n. 3, p. 687 e ss.).
I confini tra la negoziazione “genuina” e l’illecito penale sono stati, comunque, di recente analizzati e chiariti dalla Corte di Cassazione (Cass. Pen., 3 febbraio 2022, n. 3724). Secondo gli Ermellini, nel momento in cui il datore rappresenta al suo sottoposto la perdita del posto di lavoro, non è necessario, per configurarsi il reato di estorsione, provare il requisito della particolare condizione soggettiva (la debolezza sul piano contrattuale) della persona offesa, in quanto il datore di lavoro riveste un’automatica condizione di prevalenza nei confronti del lavoratore subordinato.
La Suprema Corte, pertanto, ribaltando una precedente decisione dei giudici di merito, ha affermato che “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, minacciandoli di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate”, confermando così un precedente orientamento della giurisprudenza di legittimità sul punto; la Cassazione, difatti, aveva già chiarito che l’imprenditore che costringe i dipendenti ad accettare buste paga con un importo inferiore rispetto a quanto formalmente concordato ed a lavorare per un orario superiore a quanto contrattualmente previsto è colpevole del reato di estorsione (cfr. Cass., 4 maggio 2018, n. 25979).
Dunque, come indice ai fini della configurabilità di tale illecito, appare doveroso rilevare come assume una certa importanza anche il contesto territoriale ove avviene la condotta datoriale, in quanto – generalmente – un mercato del lavoro in cui prevale l’offerta sulla domanda non può che manifestarsi in contesti economicamente depressi.
Analizzando nel dettaglio la controversia decisa dalla Suprema Corte nel febbraio del 2022, dai fatti di causa risultava pacifico che nel corso dei vari gradi di giudizio due dipendenti assunti da una struttura alberghiera espletavano la propria attività lavorativa ben oltre l’orario di lavoro contrattualmente pattuito: gli stessi denunciavano non solo di lavorare pressoché ininterrottamente (in alcuni periodi superando addirittura la soglia delle 20 ore giornaliere, con la conseguente mancata corresponsione delle differenze retributive maturate a seguito delle maggiori ore di lavoro supplementare e/o straordinarie svolte), ma altresì di svolgere mansioni non attinenti al livello di inquadramento riconosciuto.
In tale contesto, non si può non rilevare l’ulteriore circostanza – parimenti significativa – delle reiterate condotte vessatorie assunte dal datore di lavoro, le quali ponevano i ricorrenti nell’annosa condizione di dover scegliere se mantenere la propria occupazione (seppure con orari ormai divenuti insostenibili) o lasciare l’impiego, in una posizione dunque, di evidente debolezza.
Con riferimento alla questione di diritto, la Cassazione provvede ad analizzare gli elementi costitutivi della fattispecie del reato di estorsione, con l’obiettivo di chiarire se le condotte tenute dal datore di lavoro possono rientrare o meno nel concetto di “minaccia” di cui all’art. 629 c.p.
Sebbene la Corte d’Appello avesse riconosciuto che i lavoratori prestavano il proprio servizio oltre l’orario di lavoro, anche per venti ore al giorno, che espletavano compiti non inerenti le loro mansioni, subendo vessazioni continue e senza neanche la giusta retribuzione per le ore lavorative effettivamente espletate, la stessa si era espressa per non considerare questi tre elementi sufficienti In ogni caso, nonostante la presenza pacifica di tali elementi, per i giudici di merito tali condotte non risultavano sussistenti a configurare il reato di estorsione. E ciò perché dalla documentazione versata in atti risultava la possibilità di scelta lasciata al lavoratore dal datore di lavoro, in merito all’eventualità di proseguire il rapporto di lavoro o di rispettare le summenzionate condizioni di lavoro.
L’argomentazione in questione, tuttavia, non è stata condivisa dalla Cassazione: per il Supremo Collegio, difatti, la stessa nozione di minaccia implica proprio che sia rimessa alla vittima del reato la scelta della condotta ultima da adottare, ma nella consapevolezza che ove questa dovesse essere diversa da quella rappresentata e pretesa dal soggetto attivo, si avrebbe la conseguenza del male ingiusto prospettato (nel caso, la perdita del posto di lavoro).
La Corte d’Appello, invece, aveva erroneamente richiesto, quale ulteriore requisito ai fini della configurabilità del reato di estorsione, una “peculiare condizione di debolezza delle persone offese, per le particolarità del contesto economico e, specificatamente, del settore alberghiero sulmonese, nonché dell’ambiente familiare di provenienza”.
Tuttavia, secondo i giudici di legittimità tale condizione non è richiesta ai fini della configurazione del reato di estorsione: lo stesso si realizza già nel momento in cui il datore di lavoro prospetta la perdita del lavoro, approfittando della naturale condizione di prevalenza che sussiste in confronto al lavoratore subordinato e alla condizione a lui favorevole dovuta dalla prevalenza dell’offerta sulla domanda di lavoro. Di conseguenza, la sentenza di merito è stata annullata dagli Ermellini.
In definitiva, fermo restando l’orientamento della Cassazione a ritenere ammissibile la sanzione penale anche in assenza di una specifica condizione soggettiva di debolezza del lavoratore, figura comunque necessario chiarire che di certo il reato di estorsione non si configura tutte le volte in cui il datore di lavoro non adempie ai propri obblighi retributivi o di altra natura, essendo in ogni caso indispensabile (come ribadito nel caso de quo dalla giurisprudenza di legittimità) che il titolare dell’impresa coarti il dipendente, nel senso di accettare condizioni di lavoro inique e deteriori dietro la minaccia del licenziamento.
Aniello Abbate
ADAPT Junior Fellow
ADAPT Junior Fellow