Bollettino ADAPT 4 luglio 2022, n. 26
La caravella della Cgil ha rotto gli ormeggi e si è messa a navigare da sola con l’obiettivo di “buscar el levante por el ponente”. Ormai la segreteria confederale non si preoccupa più nemmeno di telefonare ai colleghi delle altre confederazioni, neppure a quelli della Uil che da alcuni anni sono stati alleati acritici e fedeli, rovesciando completamente l’asse storica tra il sindacato di via Lucullo e la Cisl.
Nella linea inaugurata da Maurizio Landini (con la manifestazione del 18 giugno in Piazza San Giovanni) non c’è alcun atteggiamento polemico nei confronti delle altre confederazioni (quando ha esposto le rivendicazioni della Cgil, Landini ha voluto precisare che su molti aspetti esiste un ampio accordo con Cisl e Uil). Ma – sembra dire ai suoi partner il leader di Corso d’Italia – dove voglio andare io, voi non potete venire, perché io intendo andare oltre il ruolo di un sindacato. Landini sa bene che Pierpaolo Bombardieri è a capo degli ascari disposti a seguire ovunque le truppe regolari della Cgil, ma non lo ha mobilitato, perché non ha intenzione di fare uno sgarbo (peraltro inutile) alla Cisl della quale rispetta la posizione tradizionalmente autonoma dai partiti, dai governi e dai padroni. Lo si era già visto in occasione dello sciopero generale a due pistoni del dicembre scorso, quando la Cisl diede una motivazione strettamente sindacale (mettendo a confronto, con un giudizio oggettivo, le richieste dei sindacati e le risposte del governo sulla legge di bilancio) per la sua mancata adesione, mentre la piattaforma predisposta da Cgil e Uil a sostegno dell’astensione del lavoro prefigurava una linea di politica economica completamente alternativa da quella portata avanti dall’esecutivo.
Perché dalla manifestazione in Piazza San Giovanni fino all’incontro con i partiti politici, nella gradevole e confortevole cornice dell’Acquario Romano (si legga la descrizione che ne fa Nunzia Penelope su Il Foglio), la Cgil ha deciso di marciare divisi per colpire divisi? Ovvero ha preteso di essere sola per scelta dopo esserlo stata sola (nella sua lunga storia) per presunta discriminazione, spesso “volontaria”? Quella di venerdì scorso non è stata un’iniziativa di carattere sindacale. Landini sapeva benissimo che dall’interrogatorio (“Il lavoro interroga” era l’intitolazione dell’incontro) non avrebbe cavato nessuna ammissione di responsabilità del divorzio tra mondo del lavoro e politica; anche perché i partiti ospiti delle classi lavoratrici conservano ormai una memoria antica, da quando il “quarto Stato” ha cominciato a marciare verso destra. Maurizio Landini ha avviato un’operazione prettamente politica: quella di patrocinare un “campo largo” dotato di un baricentro spostato il più possibile a sinistra, raccolto intorno alla forza organizzata della Confederazione di via del Corso e orientato dal suo programma.
In sostanza, Landini si è proposto come “federatore” di una nuova sinistra che somigli a quella messa in campo, con un certo successo, oltralpe da Jean-Luc Mélenchon. Certo, il perimetro delle forze in campo in Italia, non è lo stesso di quello francese. Basta leggere i nomi degli ospiti della politica presenti all’Acquario Romano: Elly Schlein, Roberto Speranza, Giuseppe Conte, Enrico Letta, Ettore Rosato Carlo, Calenda, Nicola Fratoianni, Maurizio Acerbo. Se è facile notare le presenze è ancora più banale accorgersi delle assenze. È vistosa quella delle formazioni “verdi” in un momento in cui il green, già tornato prepotentemente di moda, rischia di essere accantonato se non travolto dalla crisi energetica. Ma Landini si è affrettato ad annunciare che l’ecologia sarebbe stato il tema di un prossimo invito.
Maurizio Acerbo di Rifondazione comunista era presente all’incontro perché uno scampolo di comunismo avrebbe reso ancor più “largo” il “campo” e fornito un tocco di una maggiore radicalità ideologica. In verità, la piattaforma illustrata dagli esponenti della Cgil in quell’occasione (ma già da Landini in Piazza San Giovanni) non aveva bisogno di ulteriori contributi per impersonare quella resurrezione del populismo in autunno denunciata con preoccupazione da Mario Draghi in occasione del G7. Il presidente del Consiglio aveva individuato – nel rischio che la crisi energetica ed alimentare provocasse un’inflazione galoppante, capace di devastare i redditi e la condizione dei ceti più esposti – il brodo di coltura di una nuova ondata di populismo, incoraggiato per di più dal diffondersi di un pacifismo peloso (che cerca di scendere in politica) a ridosso del proseguimento della guerra in Ucraina e delle conseguenze delle sanzioni. Il programma di Landini non si cura dell’inflazione, ma propone una politica retributiva ad essa subordinata, in grado perciò di consolidarne gli effetti; non si cura delle contraddizioni emerse nel mercato del lavoro, ma chiede una sorta di consolidamento e ampliamento delle tutele attraverso lo strumento della legge (il salario minimo, l’estensione erga omnes dei contratti, gli sconti fiscali, l’abolizione di ogni tipologia di flessibilità in nome della lotta ad una precarietà il cui ambito è più percepito che reale, ecc.).
Nel dibattito svoltosi nell’Acquario Romano non si è fatto cenno al PNRR e ad obiettivi di riforma e trasformazione. Elly Schlein, vice presidente della Regione Emilia Romagna e immancabile Ninfa Egeria di queste iniziative, più o meno con le stesse parole con cui aveva concluso il dibattito di Futura nel settembre scorso a Bologna, ha riepilogato i punti sui quali tutti avevano concordato: “salario minimo, legge sulla rappresentanza, lotta al precariato attraverso il contratto di lavoro unico”. Se la linea proposta dalla Cgil diventasse il progetto del “campo largo” di una nuova sinistra, sarebbe come avere la pretesa di rinchiudere la mitica classe lavoratrice in un bunker a spendere la moneta della Bce e a ridistribuire il reddito prodotto (?) attraverso un regime fiscale persecutorio non degli evasori ma dei contribuenti che – per il loro reddito – pagano già oggi la quota prevalente dell’Irpef. Come non si stanca mai di ricordare il Centro Studi di Itinerari previdenziali, i contribuenti che dichiarano guadagni annuali dai 35.000 euro in su sono solo il 13,22%, cioè 5,5 milioni, meno del 10% della popolazione, ma pagano il 58,86% di tutta l’IRPEF e non godono di alcuna agevolazione. Coloro che dichiarano redditi lordi sopra i 100mila euro (100mila euro lordi diventano circa di 52 mila euro netti) sono solo l’1,21%, pari a poco più 501.840 contribuenti, che tuttavia versano il 19,56% (19,80% nel 2018) dell’IRPEF. E sarebbero loro quelli soggetti a un contributo di solidarietà o, meglio ancora, ad un’imposta patrimoniale che realizzerebbe l’aspirazione (come si leggeva un tempo sui manifesti) di vedere piangere anche i ricchi. Come dice la canzone: Certi amori non finiscono/ Fanno dei giri immensi/ E poi ritornano. Il populismo nasce a sinistra, ma prima o poi trasmigra a destra; il populismo sindacale è all’origine di quello politico.
Membro del Comitato scientifico ADAPT