La crisi delle ragioni prime: grandi dimissioni e diritto-al-lavoro-che-voglio*

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Bollettino ADAPT 20 luglio 2022, n. 28
 
Nella semplificazione mediatica le c.d. grandi dimissioni stanno diventando una sorta di socialismo realizzato, un carsico stillicidio di opposizione alle moderne condizioni di lavoro che va generando portentose stalattiti anticapitaliste. Migliaia di lavoratori ogni mese lasciano un posto sicuro, giudicato mal pagato e poco gratificante, per “cambiare vita”.

La parzialità di questa lettura è evidente; d’altra parte il fenomeno è reale e merita di essere approfondito, senza pregiudizi laboristi o liberal.
 
Nel 2021 sono state quasi 1,9 milioni le dimissioni volontarie, circa il 12% in più rispetto al 2019 (anno pre-pandemico) [dati ricavati dalla Comunicazioni Obbligatore gestite dal Ministero del lavoro]. Nel primo trimestre 2022 sono state 307 mila, la cifra più alta da quando è calcolata questa statistica (+35% rispetto al 2021, che pure, come riportato, è stato un anno record) [dati INPS]. I due terzi dei dimessi sono lavoratori adulti, con più di 35 anni, ma sta crescendo molto la quota dei giovani (+27%) e dei senior (+71%) [dati di Veneto Lavoro].

Contemporaneamente si sta registrando una percentuale di posizioni lavorative definite “di difficile reperimento” mai osservata fino ad oggi: il 39% delle circa 560.000 opportunità di lavoro che le imprese hanno previsto di offrire a giugno 2022 rischia di non essere coperta da alcun lavoratore, poiché non si trovano persone con adeguata esperienza (69%), non vi sono candidati (16%), quelli che rispondono agli annunci non hanno le competenze adeguate (13%) [dati Unioncamere Excelsior].
 
La fotografia assume colorazioni paradossali se a questi dati se ne associano altri due, riferiti in particolare ai giovani, a cui si rivolgono circa il 57% delle posizioni scoperte: l’Italia è il Paese europeo con il maggiore numero di Neet (giovani Not in Education, Employment or Training, ossia che non studiano e non lavorano): se si analizza la fascia di età 15-34 (perché in Italia a 34 anni si è ancora giovani socialmente, ahinoi) si tratta di 3.085.000 persone [fonte Eurispes]; costoro non lavorano pur essendo diminuita di molto la “concorrenza”, non per meriti formativi, ma per accidenti demografici: dal 2002 al 2022 i giovani tra i 15 e i 34 anni residenti in Italia sono diminuiti di 3.051.000 unità, poco più del 20% del dato di inizio millennio[dati ISTAT].
 
Tralasciando la riflessione sui lavoratori esperti che si stanno dimettendo non per aprire un bar a Cuba e respirare la libertà dalle moderne convenzioni, ma per guadagnare di più, rimanendo nello stesso settore ove vengono valorizzate le loro competenze (questa è la spiegazione di oltre il 65% dei casi, che, se residente nel Nord Italia, si ricolloca in meno di un mese) [fonte Banca d’Italia], vale la pena osservare il sottogruppo dei giovani. Sono costoro a comunicare nelle tante indagini demoscopiche e sociologiche effettuate in questi mesi di essere disponibili a guadagnare di meno pur di trovare un posto di lavoro che li corrisponda. Per loro, inoltre, essendo meno l’esperienza, è anche più difficile rientrare nel mercato del lavoro in brevissimo termine. Eppure, pur essendo relativamente pochi rispetto ai padri e ai nonni, parrebbero esserci per gli under 35 circa 125.000 posizioni al mese considerate di difficile reperimento, oltre ai tanti incentivi economici dedicati che la normativa europea non permette di attivare per gli adulti, per motivi di concorrenza. Ciononostante, un numero rilevante di giovani decide di rimanere fuori dal mercato di lavoro e una percentuale non secondaria ne esce volontariamente.
 
Secondo le forze sociali e politiche di sinistra (per quel che vuole dire, oggi…), la ragione di questa scelta è da ricercarsi nei bassi salari offerti soprattutto nei settori del commercio e del turismo, vivaci nella stagione estiva e tradizionalmente accessibili anche come primi lavori. Considerazione non infondata, ma tendenziosa: la FIPE (Federazione Italiana Pubblici Esercizi) da mesi lamenta la mancanza di 250.000 lavoratori solo nel settore dell’ospitalità, ricordando che le tariffe di entrata regolate dal contratto collettivo per un giovane senza alcuna esperienza prevedono 1.200 euro al mese per 40 ore settimanali di lavoro, che in estate sono sovente accompagnate dagli straordinari pagati. Di certo c’è chi fa il furbo, di certo vi sono sacche di nero importanti, ma è di tutta evidenza che le eccezioni non possono estendersi a un numero così elevato di scoperture.
 
Di contro, alcune associazioni datoriali e i partiti di centrodestra se la prendono con il reddito di cittadinanza. Questo può essere una “tentazione” in alcune regioni del Sud, ma è una spiegazione ancor più limitata: la media del reddito assistenziale percepito nel Mezzogiorno è 581 euro [dati INPS], assai lontana dai minimi offerti nei settori che cercano personale; inoltre non vengono rifiutati soltanto i lavori umili, ma anche professioni ben pagate, fintanto il celebre “posto fisso” nella pubblica amministrazione, come recentemente comunicato dal Ministro dei trasporti che ha esposto alle Commissioni parlamentari i dati sull’ingente numero di rinunce alla presa di servizio dei vincitori del concorso per la Motorizzazione civile.
 
Da ultimo, non ha tutti i torti chi ricorda le gravi e croniche lacune del sistema scolastico e universitario italiano, la cui offerta formativa ben poco si cura della situazione nel mercato del lavoro, ad eccezione della bistrattata (ma preziosa) istruzione e formazione professionale di competenza regionale. Ciononostante, in questa fase gli imprenditori sono disponibili ad assumere anche giovani con curricula secondari e terziari non coerenti, impegnandosi a formali on the job; il problema è che non si trovano.
 
Non (solo) economiche, giuslavoristiche, opportunistiche o formative: quali sono allora le ragioni per le quali così tanti giovani, per scelta originaria o per dimissioni, sono lontani dal mondo del lavoro? Accademici, politici, educatori, ma anche le stesse imprese, devono rendersi conto che da oramai più di un decennio sta cambiando profondamente il rapporto tra le nuove generazioni e il lavoro, nonché il significato profondo di questa componente essenziale della vita “matura”. Va affermandosi, ancora sfocato e talvolta contradditorio, una sorta di nuovo diritto non più “al lavoro” (promozionalmente sancito anche nella nostra Costituzione, all’articolo 4), ma “al lavoro preferito”, a quello che ti fa stare bene e che più corrisponde alle personali aspirazioni. Un sicuro passo avanti, per molti opinionisti: un altro gradino verso la liberazione da una fatica necessaria la cui ragione è solo il reddito conseguente (non a caso è questa la posizione di chi ha provato a sostituire anche legislativamente il “fare” lavorativo con lo “avere” economico, garantito per cittadinanza). A onor del vero, timidamente, qualche volta, c’è chi prova ad osservare che l’impegno con cui il rider sfida il traffico e le condizioni meteo per guadagnare legalmente un pasto per sé e per la propria famiglia consegnando cibo ad altri, o la perseveranza con la quale migliaia di corrieri ogni giorno portano nelle nostre case i pacchi di Amazon, o, ancora, la dedizione vocazionale che ogni mattina convince milioni di insegnanti a varcare la soglia di scuole sempre più brutte esteticamente e didatticamente, meriterebbe maggiore apprezzamento dell’ultimo messaggio Instagram nel quale qualcuno si strappa le (solitamente poche) vesti per una proposta di lavoro inaccettabile in un bar a Forte dei Marmi.

Voci messe subito a tacere perché, contemporaneamente, troppo conservatrici e troppo comuniste, distorte da una antiquata concezione nobilitante del lavoro.
 
Si torni allora a lodare chi rifiuta un posto regolare e sicuro per inseguire i propri sogni, chi si dimette perché gli è stato rifiutato il giorno in più di smartworking o chi, pur senza esperienze, ha sentenziato che gli si sta chiedendo troppo. Non hanno tutti torto, ci mancherebbe. Quel che però nessuno dice è che non hanno neanche tutti ragione e che il diritto-al-lavoro-che-voglio è l’anticamera di una crisi peggiore di quella delle materie prime: quella delle “ragioni prime”, le (sole) leve che muovono una società verso l’alto.

 
Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni industriali

@EMassagli
 
*Pubblicato anche su Tempi, 18 luglio 2022

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